18.4.15

Epica di libertà. La rivolta degli schiavi sull'Amistad (Raffaele Laudani)

Il 2 settembre 1839, mentre il pubblico «beveva, faceva a pugni, (…) sputava per ogni dove tabacco masticato» e «le prostitute proponevano i loro servigi nel loggione», il Bowery Theatre, il più grande teatro popolare di New York, metteva in scena uno dei tanti melodrammi marinareschi allora in voga: The Black Schooner, or The Pirate Slaver Armistead, che raccontava il «recente e incredibile episodio di pirateria e ammutinamento» verificatosi a bordo della goletta negriera spagnola «La Amistad».
Qui, il 1 luglio dello stesso anno, un gruppo di africani della Sierra Leone destinati a lavorare nelle piantagioni cubane di Puerto Principe era riuscito a liberarsi dei ceppi che li immobilizzavano sottocoperta. Armati di machete, avevano ucciso il capitano della nave e preso possesso dell’imbarcazione con l’obiettivo di fare ritorno a casa in Africa, prima che una nave da pattuglia della marina militare statunitense li abbordasse a largo di Long Island e li consegnasse nelle prigioni di New Haven (Connecticut) con l’accusa di pirateria. Di lì a poco avrebbe avuto inizio uno dei più celebricasi giudiziari della storia degli Stati Uniti, che alcuni ricordano nella versione cinematografica di Steven Spielberg (1997).

La tournée degli insorti
Curiosa scelta quella dei gestori del Bowery Theatre, il cui pubblico era stato protagonista qualche anno prima di una violenta sommossa antiabolizionista. Curiosa ma azzeccata: l’opera fu un vero e proprio successo al botteghino, vista da oltre quindicimila persone, circa un newyorkese su venti. Era l’inizio di un poderoso processo di spettacolarizzazione del caso, che vide folle oceaniche di curiosi pagare «uno scellino di York» (12,5 centesimi di dollaro) per entrare in carcere e osservare dal vivo i «pirati neri» dell’Amistad. I quali, dopo la loro scarcerazione, furono anch’essi impegnati in una tournée per gli Stati Uniti in cui misero in scena la loro storia per raccogliere i fondi necessari a sostenere la spedizione che avrebbe dovuto riportarli in Africa da uomini liberi.
Anche la versione di questa vicenda data recentemente alle stampe da Marcus Rediker (La ribellione dell’Amistad, Feltrinelli) non sfugge a questa dinamica di drammatizzazione. Diversamente dalla versione hollywoodiana di Spielberg, che celebra il sistema giudiziario americano e la sua capacità «liberale» di resistere alle pressioni altolocate dei sostenitori dell’«istituzione peculiare» della schiavitù, in questo caso però il racconto recupera la sua originaria dimensione atlantica ed è riconsegnato al protagonismo dal basso dei rivoltosi, capaci di «decidere autonomamente del proprio destino» e di sovvertire il «microcosmo galleggiante della nave negriera» in una vera e propria «epopea della libertà».
In linea con una ricerca storiografica più che ventennale, nota al pubblico italiano soprattutto per I ribelli dell’Atlantico (Feltrinelli, 2004), scritto a quattro mani con Peter Linebaugh, e per alcuni volumi sulla pirateria (Sulle tracce dei pirati, Piemme 1996; Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, Elèuthera, 2005), lo sfondo su cui Rediker colloca questo dramma è il mare. Vi si respira la stessa atmosfera cosmopolita dell’Incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’africano (Epoché, 2008) e di altri simili racconti autobiografici dell’Atlantico ribelle. Qui tutto è mare, spazio aperto alla circolazione e al movimento; anche i fiumi che, visti da questa prospettiva, diventano prolungamenti entroterra delle acque oceaniche, come se il mondo fosse una grande laguna navigabile nella quale città, porti e insediamenti costieri operano da nodi logistici di un viaggio senza fine nel quale l’uomo di mare inventa e reinventa di volta in volta la propria soggettività. Da quest’angolatura, la storia dei ribelli dell’Amistad perde molti dei tratti «americani» che Spielberg le ha voluto assegnare. Al pari della fortezza schiavista di Lomboko sulla costa africana di Gallinas nella quale gli schiavi vengono portati prima di essere imbarcati per il Nuovo Mondo sulla «Teçora», o delle baracche di L’Avana nelle quali sono temporaneamente detenuti prima di imbarcarsi sull’Amistad, gli Stati Uniti sono infatti solo uno degli snodi territoriali in cui si scandisce la circolazione marittima del desiderio di libertà e autonomia che anima questo gruppo di donne e di uomini.
Per Rediker la nave è un vero e proprio spazio politico, una floating factory nella quale si condensano tanto le istanze ordinative e disciplinanti del capitalismo moderno, quanto i processi di soggettivazione e di solidarietà proletaria che a quelle istanze resistono. Ciò vale in modo particolare per la nave negriera, di cui già Paul Gilroy aveva messo in luce la centralità per la definizione dell’identità nera (The Black Atlantic, Meltemi, 2003) e alla quale Rediker ha dedicato nel 2007 un volume importante ora in corso di traduzione italiana presso Il Mulino (The Slave Ship. A Human History, Viking). Così, se nel film di Spielberg le vicende a bordo dell’Amistad costituiscono solo l’antefatto di una storia che si svolge a terra, nelle aule giudiziarie statunitensi, nella versione di Rediker centrale è invece proprio l’esperienza a bordo delle due navi negriere. E lì infatti che un gruppo di uomini e donne catturati nei loro villaggi d’origine in Africa e inseriti forzatamente nei circuiti atlantici del commercio coloniale si reinventano «africani» e, più precisamente, «popolo Mendi» (dal nome del gruppo etnico maggioritario sull’Amistad).
Il volume di Rediker racconta il «farsi» di questo movimento, delle modalità che durante l’attraversamento della «grande acqua» hanno portato un gruppo di africani di estrazione etnica e linguistica differente a dare vita a un soggetto politico radicale. Tra queste particolarmente significative sono le palaver (dal portoghese palavra, parola), una pratica a quel tempo molto diffusa in Africa Occidentale, che prevedeva sedute assembleari nel bari (casa comune) per risolvere le controversie sorte tra i membri della comunità, nel corso delle quali i partecipanti erano chiamati a combinare il rigore intellettuale con l’arguzia e i toni patetici per costruire consenso diffuso attorno alle proprie posizioni. Nel contesto «occidentale» della tratta negriera le palaver divennero un efficace strumento per trasformare la «fratellanza» costruita nell’oppressione in azione
politica condivisa, pur senza annullare le differenze culturali e le diverse opinioni sul da farsi esistenti tra i ribelli.
È all’interno di questo particolare modello di democrazia dal basso che è emersa la leadership di Joseph Cinqué, la figura con cui ancora oggi si identifica la ribellione dell’Amistad, che nel racconto di Rediker emerge più per le sue capacità «discorsive» di interprete delle comuni aspirazioni dei «fratelli» africani, che per le sue indubbie doti di guerriero, condivise del resto anche da altri protagonisti della rivolta. Curiosamente, mentre l’immaginario popolare del periodo provava già a integrare Cinqué nel pantheon degli eroi «americani», quest’ultimo e gli altri ribelli dell’Amistad riuscivano a imporre il modello «africano» delle palaver anche come base per un dialogo tra pari con i militanti abolizionisti. Nelle intenzioni degli africani questi dovevano infatti limitarsi a tradurre nel linguaggio giuridico occidentale le proprie richieste. Così, ad esempio, il giovane undicenne Kale poteva scrivere senza alcun imbarazzo all’ex presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams, incaricato di difendere i ribelli africani di fronte alla Corte Suprema: «Vorremmo che lei domandasse al tribunale che cosa abbiamo fatto di male. Perché gli americani ci
tengono in prigione?»

Un’alleanza contigente
Rediker descrive i rapporti tra i ribelli africani e i loro amici abolizionisti nei termini di una «alleanza» tra movimenti portatori di interessi affini ma non coincidenti. Per il movimento abolizionista, la vicenda dell’Amistad era un’occasione per portare avanti la «riforma morale» della nazione (e dei «selvaggi» africani). Per i ribelli dell’Amistad i progetti civilizzatori degli abolizionisti erano invece subordinati all’obiettivo primario del ritorno a casa. Nello stesso modo in cui abbracciarono con curiosità gli usi e i costumi cristiani nel corso del processo e delle fasi preparatorie della spedizione che li avrebbe portati a casa, convinti dagli abolizionisti che questo avrebbe favorito il consenso popolare verso la loro causa, non esitarono a riprendere i loro abiti e le loro abitudini africane non appena rientrati in Africa, quando capirono che di quella missione civilizzatrice essi sarebbero stati più il tramite che non i protagonisti.
In realtà, i processi di ibridazione tra i due movimenti furono molto più ampi di quanto gli stessi attori non fossero disposti ad ammettere. La stessa definizione di «popolo Mendi» è inconcepibile al di fuori di questa relazione: come spiega Rediker, la sua «condensazione» è stata infatti «un diretto correlato dell’apprendimento dell’inglese e della dottrina cristiana» e al tempo stesso un «fenomeno di resistenza» di fronte «alle insistenze degli abolizionisti» di «fare degli africani dell’Amistad uomini nuovi». Similmente, il mito dell’Amistad è stato decisivo per la radicalizzazione del movimento abolizionista statunitense.
Quella vicenda dava infatti un nuovo significato alla «filosofia della riforma» abolizionista: «chi professa di sostenere la libertà e tuttavia depreca le agitazioni – avrebbe spiegato qualche anno più tardi Frederick Douglass – vuole l’oceano senza il terribile scrosciare delle sue tante acque», perché «il potere non concede nulla senza un’insistita richiesta». Di lì a poco il capitano John Brown avrebbe preso in parola questo suggerimento dando fuoco alle polveri a Harper Ferry. Era il preludio alla guerra civile.


“il manifesto”, 6 luglio 2013

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