29.5.15

Federico di Prussia, re dei Lumi (Valerio Castronovo)

Federico il Grande in un ritratto di Antoine Pesne
Aveva inaugurato la sua ascesa al trono con un atto di violenza, la conquista della Slesia a spese dell'Austria, che suscitò in Europa un'ondata generale di indignazione di fronte a quello che si giudicava un autentico crimine, perseguito con delittuosa sagacia in spregio alla morale pubblica. Ma ancor prima che si concludesse il suo lungo regno, durato quarantasei anni, era diventato una figura mitica, circonfusa di gloria e di splendore: di qui l'appellativo «il Grande» che quasi unanimemente venne riconosciuto a Federico II di Prussia. Non furono tuttavia i tedeschi, o più esattamente i suoi sudditi prussiani, a coniare un titolo onorifico così eccelso; il primo ad usarlo e ad accreditarlo fu un francese, che già nel maggio 1740, quando Federico succedette al «re sergente» Federico Guglielmo I, aveva salutato il nuovo sovrano come «principe della pace e dell'umanità» in nome degli ideali della Ragione e del bene pubblico.
In effetti, Voltaire non avrebbe potuto esprimere meglio le speranze che gli illuministi riponevano nel giovane re di Prussia, il «re filosofo», da cui si attendevano una condotta di governo ispirata ai principi dell'etica e della giustizia che fosse d'esempio per altre teste coronate, e agisse quindi da stimolo per un'azione riformatrice dall'alto. Insomma, una sorta di assolutismo illuminato, come si dirà poi per definire un sistema monarchico fondato su un rapporto organico fra sovrano e popolo, all'insegna del diritto e dell'utile collettivo, e non già su una legittimazione ricondotta alla volontà divina.

Cinico come lo zar
Da questo lato, Federico non avrebbe deluso le aspettative dei «philosophes», pronti in cambio a perdonargli le sue proiezioni aggressive. Fin dall'inizio, egli si considerò «il primo servitore dello Stato» e a tale concezione improntò il suo ufficio di sovrano, innovando il sistema giuridico, limitando la censura, stabilendo un regime di tolleranza in materia religiosa, promuovendo le arti e le scienze, adoperandosi per conciliare la ragion di Stato con gli interessi della collettività, pur nell'ambito di una monarchia assoluta e di una società feudale.
In una lettera del 1746, alla fine della guerra slesiana, D'Alembert scrisse che il re di Prussia aveva riportato tre importanti vittorie: aveva sottomesso un regno, aveva concluso la pace e soprattutto aveva accresciuto la schiera ancora esigua dei «monarques philosophes». Trent'anni dopo, nell'ultima lettera indirizzata a Federico (aprile 1778), Voltaire ripeteva più o meno lo stesso giudizio: «ella ha vinto i pregiudizi così come gli altri suoi nemici: può dunque compiacersi delle sue opere in tutti i campi».
E tuttavia l'itinerario di Federico non fu così univoco come i filosofi illuminati amavano rappresentare o volevano che fosse. Anzi, se vi fu un autocrate in senso sia politico che personale, questi fu proprio il re di Prussia. Non solo perché Federico si comportò all'occorrenza con lo stesso cinismo e gli stessi metodi arbitrari di uno zar di Russia, ma anche perché non divenne mai un «re borghese», non riuscì mai a trasformare sino in fondo la figura del re da « immagine di Dio» a sovrano secolarizzato di uno Stato moderno.
Ciò non toglie, come dimostra Theodor Schieder in un saggio che si raccomanda tanto per il vigore narrativo quanto per l'equilibrio di giudizio (Federico il Grande, Einaudi, pagg. 473, lire 65.000), che il monarca prussiano sia stato 1'interprete e il rappresentante più genuino delle idealità illuministe nella prassi politica e nell'arte di governo. Federico bandì infatti ogni pregiudizio nella valutazione delle cose e nell'esercizio del potere, eleggendo a metro di riferimento per le proprie decisioni ciò che gli dettavano l'esperienza pratica e il calcolo delle prospettive e dei rapporti di forza.
Questo suo modo di agire obbedì, in apparenza, ai canoni più collaudati del pragmatismo, così da dare l'impressione a non pochi osservatori che la politica del sovrano fosse priva di fondamenti teorici, a dispetto della conclamata adesione del suo protagonista ai principi dell'illuminismo. Ma, come giustamente rileva lo storico tedesco, il realismo politico più spregiudicato e la capacità di mettere a profitto con sapiente accortezza le opportunità che via via gli si presentavano, fu solo un aspetto della complessa personalità di Federico; l'altra componente fu appunto la tendenza a imprimere un carattere etico e razionale al le sue scelte politiche e alle sue norme di governo.
Proprio questa continua tensione fra pragmatismo e idealismo costituì il tratto distintivo più originale di Federico, un personaggio assai più contraddittorip ai quanto comunemente si pensi. Ciò emerge anche dai suoi rapporti con Voltaire, che non diedero mai luogo a un sodalizio integrale, senza ambiguità e incrinature, ma piuttosto a un continuo alternarsi di assonanze e divergenze, di fasi intense di mutuo apprezzamento e scambio di idee e di altrettanto prolungati periodi di reciproco e sospettoso silenzio.

Contro i mostri del fanatismo
Tant'è che in nessun altro caso si istituì un rapporto così stretto di attrazione e di repulsione come quello che intercorse fra il sovrano prussiano e il filosofo francese. Il primo era affascinato dalla capacità del secondo di spaziare in tutti i campi del sapere e dello spirito, come egli stesso avrebbe voluto fare in sintonia con la sua adesione ai principi universalistici dell'illuminismo, ma attento, nello stesso tempo, a mantenere ferme le distanze non solo dal la gente comune, ma anche dalPélite intellettuale e dal suo più eminente rappresentante. Voltaire, a sua volta, era convinto che Federico potesse diventare, per mano sua, il paladino per eccellenza della causa degli illuministi in lotta contro «i mostri della superstizione e del fanatismo» (e perciò era portato a caricare l'opera del re di Prussia di significati talora eccessivi); ma alla fine restò deluso di fronte alle incoerenze del suo modello ideale.
Ma proprio questo impasto di luci e di ombre, di forti contrasti interni, che caratterizzò la tormentata esistenza di Federico, contribuì a fare di lui una figura tanto singolare - e sicuramente eccezionale per i suoi tempi - assai più che la poderosa opera di governante e di geniale condottiero, che avviò la trasformazione della Prussia in una grande potenza. Così che, se i suoi contemporanei (e non solo essi) non ebbero certamente torto nel giudicarlo l'artefice (sia pure con maggiore ampiezza di orizzonti rispetto ai suoi predecessori) di uno Stato militaresco e burocratico, a sua volta Kant potè definire a buon diritto l'età dell'illuminismo come il «secolo di Federico».


“la Repubblica”, 20 giugno 1989

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