Christa Wolf |
Si è spenta Christa
Wolf, la maggiore scrittrice tedesca del dopoguerra, il personaggio
più inquietante per il panorama che la Germania si è imposta, prima
e dopo la caduta del Muro, brevemente amata dalle femministe e subito
caduta dalle nostre candide mani quando dagli archivi della Stasi, la
polizia segreta, è uscito un fascicolo intestato a un nome falso che
la definiva come «agente informale», persona dalla quale si poteva
avere qualche informazione senza che se ne accorgesse.
Agente informale! Quale
orrore. Anche su “il manifesto” alcune anime belle si sono
sdegnate che di lei ci fossimo occupati. L’anima bella non si
informa su nulla, ama credere alle polizie, non va mai fuorimoda.
Christa Wolf era
ingombrante. Anzitutto perché scriveva, assieme della insondabilità
del femminile e della storia nella quale le donne si trovano immesse,
e della quale una femminista doc non si impiccia, non è competente,
in nessun caso ne accetta i codici e i parametri di giudizio. E tanto
più trattandosi, nel suo caso, di una storia fra due società
dichiarate totalitarie, dunque identiche. Lei era nata fra le due
guerre, in un borgo e una famiglia modesta, all’oscuro di tutto e
presa dal bisogno di studiare, di capire ma anche di essere utile
agli altri. Come ha fatto a non riconoscere di colpo, da bambina, il
volto mostruoso del nazismo? E a trovarsi a sedici anni nella
Repubblica democratica tedesca e persuasa di essere uscita dalla
dittatura mentre non faceva che entrare in un’altra dittatura, e
uguale? Uguale? Via via che Christa Wolf conosce il passato e vive il
difficile presente non si adeguerà mai all’opinione che, insomma,
erano la stessa cosa. Lei pensava che avendo vissuto fino al 1945
nelle maglie di un sistema del quale veniva scoprendo la ferocia, si
doveva assumerne la responsabilità e cercar di riscattare la
Germania, per quanto di riscattabile ci fosse, rifacendone la società
da capo a fondo. Abolendo le ingiustizie proprietarie, facendo in
modo che tutti potessero studiare, avere un lavoro e una assistenza
sanitaria e pagando il prezzo di una certa, se non povertà, severa
sobrietà, «occupandosi del sociale», diremmo noi, della
solidarietà voluta dal partito, la Sed, dice lei.
Come si fosse impegnata
in questa quotidianità lo scrive più tardi, quando già era resa
inquieta non da un rifiuto ma da un dubbio sul sistema ne Il cielo
diviso e poi in Trama d’infanzia. Non che fosse il suo
unico interrogativo, ma il più forte su se stessa, compagna
«intellettuale» che si voleva responsabile di tutto, un tutto che
sempre meno le piaceva, ma che non ebbe mai la tentazione di
scuotersi dai calzari per andarsene «libera» all’ovest.
Nella scrittura che più
la impegnava – fra partito e accudimento d’un simpatico compagno
e due simpatiche figlie – scavava nel conflitto fra i sessi, e gli
aveva già dato la voce di Cassandra, prigioniera di un Agamennone
che torna a casa fra le braccia di una Clitemnestra, che lo avvolge
d’un tessuto prezioso per ucciderlo, non avendogli perdonato di
avere sacrificato la loro Ifigenia per ottenere dagli dei un buon
vento nella navigazione verso Troia. Cassandra, prigioniera, emette
un alto lamento fuori della porta della reggia perché sa quel che
avviene e avverrà, Apollo avendole dato, per vendetta, il dono
avvelenato di conoscere il futuro, che nessuno ascolterà. Alle donne
non resta, per sfuggire ai maschili lacci di morte, che farsi una
comunità per sé, a parte, vicino allo Scafandro. E’ un testo che
scaverà un solco, e su cui tornerà con Premesse a Cassandra.
Più tardi affonderà il
coltello nella piaga con Medea. Medea la spietata che per colpire
l’infedele Giasone uccide i suoi bambini. E se fosse, si chiede
Christa, una invenzione dei greci, che - non sopportando di avere per
regina una straniera, per di più della Colchide, alle pendici di
quel Caucaso cui è incatenato Prometeo, per di più sapiente di cose
magiche, - appoggiano lo sposo spergiuro, le danno un giorno per
partire, la dicono assassina del fratello e ne uccidono i figli?
Euripide è quello che ha messo questa Medea in versi e in scena. Si
può discutere se il suo sia davvero un processo alla straniera o la
tragedia delle donne tradite, che conclude facendo assurgere Medea e
i due piccoli cadaveri sul carro del sole, suo padre. Così l’avrebbe
assolta anche Dreyer e chi ne completava l’opera, Lars
von Trier. Ma poco importa una discussione filologica. Importa
che la Medea di Christa non solo denuncia lo sguardo maschile
nella mitologia e nella storia, ma cade nel frammentarsi della
sperata «casa comune» europea fra sanguinosi nazionalismi,
conflitti di sangue e terra, che ardono nei Balcani - ricchi di
ritorni su Medea – e in un continente che cede a sempre più
semplificati e crudeli paradigmi. Per rapporto alla xenofobia, la
Medea corrente, diciamolo, è uno stereotipo femminile comodo. Se le
urla di Isabelle Huppert nella corte del palazzo dei Papi di Avignone
fossero dolore puro e giustificato?
Da Medea le mie amiche
sono meno turbate che da Cassandra, né, che io sappia, se ne sono
troppo occupate. Poco dopo però il centro Virginia Woolf di
Alessandra Bocchetti invita Christa a Roma, e in un teatro fitto di
donne lei viene, il bel viso paesano e limpido, a rispondere a tutte.
E quando le chiedono quali siano stati i suoi giorni più felici,
dice semplicemente quelli in cui aveva messo al mondo le figlie. Ma
appena esce, ripresa con gaudio dai giornali, la storia velenosa del
fascicolo della Stasi, non si prende la difesa di Christa, non si va
a vedere, la si tiene a distanza e la si sprofonda nell’oblio. Del
resto, come che sia andata, che altro si merita una che si è
impeciata nel comunismo, e non si affretta a rinnegarlo come tutta la
gente per bene?
Christa si ammala, sfiora
la morte, patisce ma osserva e scrive di quando il corpo ti vuole
ammazzare, non guarirà del tutto mai più. Un soggiorno in
California, offerto da una cortese asettica fondazione per una
ricerca sulla messe di intellettuali tedeschi emigrati fra le due
guerre, le permetterà di vivere accanto alle Pacific Palisades di
Thomas Mann e Arnold Schoenberg, alla casa dei Feuchtwanger e di
altri, anche di un soggiorno di Brecht, di cui può scrutare oltre le
siepi i giardini. Ora ci abitano altri. Legge e rilegge i loro
scritti dall’esilio e, per quelli che sono tornati, dal ritorno. Un
paese, una Stimmung, si sono estinti. Come ci si estingue?
Christa va in cerca degli indiani in estinzione, gli Hopi accanto al
Grand Canyon. Ma non è la stessa dei tedeschi del Novecento. Degli
ebrei. Con un ebreo condividerà i pensieri e le grandi domande sul
fare e non fare, sulla vita e sulla morte.
Quando andrà a vedere
Las Vegas, simbolo di un presente trionfante, la troverà identica a
quel che aveva pensato, e ripugnante. Gli Stati Uniti non sono
soltanto Las Vegas, né quel cheresta degli indiani. La California
che la ospita è piena di gente, esuli e non esuli, gentile,
corretta, senza grandi curiosità ma che si sente in dovere di farle
la domanda: come è stato possibile essere tedeschi? Prima del 1945?
E dopo nella Rdt, più precisamente Ddr? Non si azzardano ad
approfondire: come è possibile aver appartenuto alla Sed? È un
mondo inimmaginabile dai gentili indigeni. Il solo a capire è
l’amico ebreo, con il quale si scambiano pensieri affaticanti di
saggezza. Potremmo capire alcuni di noi europei, se solo non
rifiutassimo assiduamente il passato. E la persuasione, da Christa
mai dismessa, che avere un posto di lavoro, un alloggio, una scuola
aperta fino agli scalini più alti, una assistenza sanitaria siano
dei diritti umani. Non è più così. Ed è stata breve l’illusione,
fra il 1988 e il 1989 che quel che era stato il suo paese - come
dire: quel paese io lo ho amato? - conservasse i diritti di prima e
avesse ora anche la democrazia. La libertà, suggerisce l’amico
ebreo. Libertà è un enorme parola. In ogni modo non sarà.
Negli ultimi anni la sua
scrittura si sviluppa in un tessuto simile, con occhio di donna, a
quello dell’Ulysses di Joyce, senza le illuminazioni
formali, ma in tempo reale, in luogo reale, davanti agli altri reali
e alla incerta realtà di se stessi, inclusa la domanda chi si è,
che cosa è la memoria di sé nell’immenso patchwork dell’esistenza
concreta. Impermeabile alle coglionerie del postmoderno, nesegue fino
a rompersi le ossa la pressione del concretamente vissuto. In Un
giorno all’anno si prescrive di scriver tutto, ma proprio tutto
e soltanto, di un certo giorno di ogni settembre. Formula bizzarra,
che m’è venuto subito naturale di scassare, andando a scrutare che
cosa pensava nel settembre del 1976, del 1989, del 1990 - fino a che
ho imparato a leggerlo per quel che è, un fiancheggiarsi di veri
giorni, non traversati e piegati a un filo diverso da quello
dell’esistenza.
L’altro libro
sconcertante è uscito in Italia nelle settimane in cui moriva. Avrei
voluto tanto poter parlare con Christa Wolf, avremmo avuto molte cose
da dirci. Ma lei era malata, e io non so parlare il tedesco, mi resta
una sua lunga risposta a una mia polemica. Insomma niente, salvo La
città degli angeli, un quasi diario del soggiorno a Los Angeles.
La luminosità del cielo, lo splendore del mare e una piccola suora
dal nome adatto, Angelina, affettuosa e ridente; che la invita a
guardarsi con indulgenza, a volersi bene, a non farsi male, ad
acquietarsi in quel che le piace, ad sorvolare sulle cose. Christa
Wolf vuol bene a quell’angelo, anzi a quell’angela, ma non
appartiene alla sua serena specie.
Una società di liberi ed
eguali. È il filo rosso che inanella i romanzi e gli scritti della
scrittrice maggiore nella Germania del Novecento. Christa Wolf è
rimasta fedele alla scelta di tessere parole per le storie di questo
progetto mai rinnegato, nonostante la dolorosa e mai rinunciataria
consapevolezza della sua sconfitta.
il manifesto sabato 3
dicembre 2011
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