18.5.15

Scrivere in provincia. Autoritratto di Emilia Bersabea Cirillo

Nel sito “vibrisse” Giulio Mozzi cura una serie di articoli dal titolo La formazione della scrittrice. A me è parso assai interessante per la scelta “provinciale” questo di Emilia Bersabea Cirillo, di cui finora nulla ho letto. Se potrò, colmerò la lacuna, mi piace l'idea di una scrittura territorializzata, legata ai luoghi. (S.L.L.)
Emilia Bersabea Cirillo
Ho sempre letto moltissimo, con la curiosità e l’accanimento di chi cerca un aiuto ai sogni. Di solito compravo i libri attratta dal titolo e dalla copertina. Ma soprattutto leggevo nella biblioteca dei ragazzi, giornate intere con la testa e il cuore nelle storie di altri. Arrivavo alle dieci del mattino e restavo a leggere fino all’una. Avevo una lista di autori: Brontë, Alcott, Colette, Dickens, Barrie, a questi si aggiunsero Harper Lee con il suo Il buio oltre la siepe, la Capanna dello zio Tom, Pattini d’argento, la Piccola sconosciuta di H. V. Gebhard, Davy Crockett di E.L. Meadowcroft, Polyanna, e poi, man mano alcune poesie di Pascoli e Il vecchio e il mare di Hemingway.
Fu allora, nell’adolescenza, che cominciai a scrivere. Mi sembrava un’arte così preziosa, che volevo provare anche io. Ma chi non comincia a scrivere nell’adolescenza. Ho ancora conservate alcune cose, scritte su un quaderno a quadretti, che non ho più riletto. Scrivevo storielline e mi dannavo: un po’ perché non venivano come io volevo, un po’ perché mi sentivo, proprio perché scrivevo, diversa dagli altri. Ho cominciato a scrivere con maggior fiducia in me stessa dopo aver letto Piccole donne ed essermi innamorata di Jo March. Anche questo, credo sia stata una febbre comune a tante donne. Solo che a me questa febbre non è più passata e ho imparato a conviverci, facendola diventare una parte di me necessaria e importante. Scrivevo raccontini d’amore, verso i quindici anni, un po’ scialbi, un po’ prevedibili. Ho letto molto allora. I libri più significativi sono stati Gita al faro di V. Woolf, Riflessioni su Christa T. di C. Wolf, La luna e i falò di C. Pavese e i racconti di K. Mansfield.
Ho capito che scrivere è un fatto assolutamente solitario, che richiede silenzio, tempo, cura. La scrittura è cercare il proprio sguardo, che si compie attraverso le parole e le storie : una cosa è una cosa è una cosa, e non solo per come ci appaia. Certo, ci vuole una stanza tutta per sé, e tremila ghinee al mese di rendita, tanto per citare Virginia, che è stata la mia prima grande maestra. Ma non ho rendite, e non ho neanche una stanza tutta per me. Scrivo a casa, a matita, su quaderni rilegati, neri e rossi, dalla carta sottile, e batto a computer, tutti i giorni che posso. L’altro mio tempo è il lavoro d’ufficio, la cura della mia famiglia, una continua mediazione, un continuo rincorrere. Ma questa molteplicità, in fondo, mi è di aiuto, perché mi riporta di continuo alla mia vita materiale.
Non perché sono architetto, penso che scrivere abbia a che fare con un luogo, il proprio, quello che ha visto per la prima volta, che si costruisce e compone dentro osservandolo tutti i giorni, sentendo le voci, le inflessioni, vedendo i colori, percorrendolo a piedi, scrutando i paesaggi, rinvenendo leggende; la scrittura deve testimoniare l’appartenenza ad un luogo, così che tu possa essere riconoscibile; come per la Sicilia di Vittorini, le langhe di Pavese, la Londra di Virginia, la Torino di Natalia, la Napoli di Anna Maria Ortese. Chi scrive parte sempre da un luogo per dire se stesso. I luoghi sono già la tua scrittura. Il mio incontro con Gianni Celati, con i suoi libri fatti di silenzi e di passeggiate padane, di grandi solitari incontrati nella nebbia è stato fondamentale. Si è aperto il mondo degli scrittori di provincia: Delfini, D’Arzo, Flannery O’ Connor, ma anche Faulkner, con il suo bellissimo Una rosa per Emily.
Io non conoscevo l’Irpinia, prima del 23 novembre 1980. Quella che sarebbe diventata la scena delle mie scritture mi era ancora ignota. Pensavo che il dentro, i paesi dell’interno, fossero bui e neri, poveri e freddi. Volevo aria e mare: Napoli, per dirla in una parola. Ma poi è venuto il terremoto e le cose si sono capovolte, dentro di me. Non avevo altro che macerie e crolli e paesi fangosi che scendevano a valle. Ed io ero là, in quel fango e in quelle pietre e non volevo andare più via. Mi dicevo, ma allora se resto ci sarà pure un motivo, se resto e voglio raccontare, devo partire da quello che è sotto i miei occhi e dalle parole che ascolto. Ho così girato per i paesi, secondo un itinerario casuale, dove il mio mestiere di architetto, mi portava. «[…]Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo[…] » conclude meravigliosamente Celati, in Verso la foce.
Da allora scrivo d’Irpinia. Quando scrivo il nome di un paese sulla carta, il paese smette di essere interno di una realtà interna, penso che sono un passo fuori da loro e loro sono già un passo lontano da me. Penso che sto mettendo sulla carta pezzi di mondo in cui faccio andare a vivere, amare, sognare o morire i miei personaggi. Scrivo di storie quotidiane, della vita che accade: la malinconia della partenza dei figli, della difficoltà di restare in luoghi difficili, delle solitudini che contiamo ogni giorno, di improvvisi ritorni che scompigliano un ordine apparentemente rassicurante. Sono il mio mondo. E cosa è scrivere, se non dire il proprio mondo?


Da “vibrissewordpress” - La formazione della scrittrice, 28, 21 luglio 2014 (by Giulio Mozzi)

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