1.5.15

Una storia americana. Julia Chase-Brand e la libera corsa (Matteo Patrono)

Julia Chase-Brand 1961
Il 1961 è un anno nel quale, per la prima volta, succedono un mucchio di cose. Il primo concerto dei Beatles al Cavern Club, il primo 45 giri dei Beach Boys (Surfin’), il primo contratto discografico firmato da Bob Dylan con la Columbia Records. Jurij Gagarin è il primo uomo a volare nello spazio, nelle edicole americane esce il primo numero dei Fantastici Quattro e Leonard Kleinrock pubblica il primo articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà alla base di internet. A Berlino posano il primo mattone del muro, in Vietnam sbarcano i primi soldati americani. Mentre a Birmingham, in Alabama, Carl Lewis tenta il primo sprint della sua vita dentro la culla, a Manchester, minuscolo paesino del Connecticut, una ragazza appena maggiorenne sfida il gli stereotipi della società americana.
E’ il 23 novembre, il giovedì di Thanksgiving, e Julia Chase-Brand partecipa clandestinamente a una corsa di 7 km e mezzo riservata a soli uomini. E’ la prima donna a cimentarsi non solo con gli uomini ma soprattutto con una gara sulla lunga distanza. Fino ad allora era ottusa opinione comune che le donne non potessero correre più di un km, pena la perdita della loro femminilità e nientemeno della loro capacità riproduttiva. Nonostante i tentativi di fermarla da parte dei giudici, Julia completa la sua gara lasciandosi alle spalle una decina di maschi. Finisce sui giornali, indica la strada da (per)correre a quelle che verranno dopo di lei. Dopodichè decide di occuparsi d’altro e saluta.
Cinquanta anni dopo, Julia Chase-Brand ha deciso di tornare sulle strade che la resero una piccola pioniera dello sport femminile. Il 24 novembre correrà nuovamente la Manchester Road Race. Stesso grembiulino del college del ’61, qualche toppa qua e là. Le ginocchia un po’ malandate, 69 primavere e il desiderio di festeggiare con chi la accolse allora e con chi ha raccolto il suo testimone. Il merito di aver riscoperto la bellissima storia di Julia è del “New York Times” che l’ha scovata nel reparto di psichiatria ambulatoriale del Lawrence and Memorial Hospital (New London, Connecticut) dove lavora come direttore medico, alla vigilia della Maratona di NY che si corre domani. Il “Times” ha un legame particolare con lei. Negli anni cinquanta, il papà della ragazza, lo scrittore John W. Chase, recensiva libri per il giornale. Fu lui ad iniziare Julia alla corsa tra gli alberi e i laghetti della fattoria della nonna a Groton.
Lei andava a caccia di rane, granchi e tartarughe, giocava a baseball coi fratelli, correva fino a scuola (un miglio e mezzo) quando perdeva il bus oppure ci andava in canoa attraverso una palude salata. Quando la ragazzina comincia a vincere le prime gare di velocità, il papà non mostra grande interesse. «Forse ti andrebbe di provare il tennis, cara?». Julia allora si intrufola al circolo del golf e si mette alle calcagna di due maratoneti che si allenano lungo il green. Uno è il campione nazionale John J. Kelley, già vincitore della maratona di Boston. L’altro si chiama George Terry e decide di allenare personalmente quella ragazzina che mette in imbarazzo i soci del club. Nel luglio del 1960 la fa partecipare ad una gara sui mille metri iscrivendola con una falsa residenza perché le donne del Connecticut non potevano partecipare. Un assurdo divieto che l’Amateur Athletic Union (Aau) estende in quegli anni a tutto il paese seguendo l’esempio delle Olimpiadi dove le atlete non potevano correre su distanze più lunghe di mezzo miglio perché, secondo una parte della medicina ufficiale, un simile sforzo poteva portare alla perdita dell’utero.
Julia la sua corsa la vince a mani basse e pochi mesi più tardi partecipa ai trials di qualificazione olimpica in Texas. Il fratello gli presta i pantaloncini, la maglietta e delle scarpe da corsa enormi, appiccicate ai piedi col nastro adesivo. Vede sfrecciare al suo fianco Wilma Rudolph, la donna più veloce del mondo e per non avere intralci lei gareggia senza reggiseno. Nessuno ci fa caso perché finisce decima e non si qualifica per i giochi. A fine anno prova per la prima volta a correre la Manchester Road Race, una gara ideata nel 1927 da tale Francis Duke Araburda, capitano della squadra di cross-country della Manchester High School. E’ una gara famosa, la più importante per partecipazione negli stati del nord-est dopo la maratona di Boston. I tempi non sono ancora maturi e gli ufficiali di gara le impediscono di gareggiare.
Julia però non demorde, la disobbedienza civile è nel dna della sua famiglia. La bisnonna Mary Foulke Morrison era stata una leader delle suffragette e il bisnonno William Dudley Foulke presidente della American Woman Suffrage Association alla fine dell’800. Così nell’autunno del 1961 Julia si iscrive ufficialmente alla corsa di Manchester avvertendo gli organizzatori e la Aau che intende infischiarsene del loro divieto. La stampa comincia a interessarsi al suo caso con occhio accondiscendente e una dose abbondante di paternalismo. «Fate largo maratoneti, si intromette una ragazzina del college», titolano i giornali sottolineando che la ragazza è carina, intelligente, simpatica, assolutamente femminile. “Life” le dedica un servizio con lei che si arrampica su un albero. Titolo: Un maschiaccio sul ramo. Sommario: La ragazza corre 4 miglia al giorno e completa la corsa facendo la ruota e un po’ di ginnastica ritmica, talvolta arrampicandosi su un albero». Dal Sud Africa e dal Giappone arrivano attestati solidarietà, un nudista polacco reclama un calco del suo piede.
Tutta quell’attenzione, inaspettata, la mette un po’ in difficoltà. «Le donne non corrono, io corro. Cosa sono dunque?». In realtà fuori dagli Stati uniti le donne corrono eccome e anche in America qualcosa sta cambiando. A sostenere la sua causa si presenta il dottor Charles Robbins, due volte vincitore della corsa, uno convinto che anche le donne avessero diritto alla forma fisica promessa dal neo-presidente John Fitzgerald Kennedy. «Lo sport femminile è il futuro, è solo questione di tempo». Infatti il giorno della gara altre due ragazze si presentano alla partenza con Julia, dopo averne letto sui giornali. Una, Chris McKenzie è una campionessa inglese 30enne che ha appena partorito un bambino e arriva coi pantaloni della tuta del marito, Gordon McKenzie, ex olimpionico. La moglie esibisce una maglietta con su scritto «Se posso portare in grembo un bambino per nove mesi, posso correre dieci km». L’altra è una studentessa 18enne di Manchester, Dianne Lechausse, di mestiere ballerina. Al via, oltre a loro, ci sono 138 uomini.
Gli organizzatori, preoccupatissimi, le fanno accomodare sul marciapiede. Julia, che ha una fascetta in testa, una divisa scolastica e una croce al collo, gesticola, si anima, discute. «Vedete, mica mi sono mascherata da maschio. Sono qui come donna, con la mia gonna, i capelli appena fatti, il rossetto sulle labbra. Io oggi corro». Quindi prende le altre due, si confondono nella folla e alla prima occasione si buttano in mezzo al gruppo dei corridori. Questa volta non le ferma nessuno. McKenzie è la prima ad arrivare al traguardo ma preferisce correre gli ultimi 20 metri sul marciapiede, trafelata, col timore di essere squalificata a vita. Julia invece arriva in 33 minuti e 40 secondi, 128esima, dieci uomini che arrancano alle sue spalle. Lechausse chiude ultima in 42’12’’. Il giorno dopo il Nyt titola Tre donne battono alcuni uomini. In alcune edizioni il dispaccio dell’Ap non c’è, sostituito da un articoletto su una corsa di cavalli a New Orleans.
Julia Chase-Brand 2010
Julia promette all’Aau che non disturberà più i colleghi uomini convinta che non si possa più tornare indietro dopo quello che è successo. E invece no, ancora per 13 lunghissimi anni gli organizzatori della Manchester Road Race continueranno a negare alle donne il sacrosanto diritto di correre come e quanto vogliono. «Scusate, non abbiamo i soldi per premiare anche voi. E poi chi paga i lavori per costruire i vostri spogliatoi…?». Il muro cade finalmente nel ’74, grazie a picchetti e azioni di protesta la corsa viene finalmente aperta a tutti e tutte. Su 1093 iscritti ci sono una cinquantina di donne. Cynthia Wadsworth, campionessa liceale, vince in 29’10’’. Non la premia nessuno, ci penserà tre anni dopo Amby Burfoot, che le regala il televisore ricevuto in premio per aver vinto la gara due volte di fila. Passano un altro po’ di anni e la maratona femminile fa il suo esordio alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984. Quel giorno Julia è davanti alla tv, vede Joan Benoit Samuelson tagliare il traguardo felice, lei piange come una bambina. «Joan ringraziò tutte le donne che le avevano permesso di arrivare fin lì. Io l’ho preso come un grazie molto personale. Fossi nata dieci anni più tardi, forse ci sarei stata io al suo posto».
Nel frattempo però Julia ha cambiato vita. Ha rinunciato all’atletica dopo aver fallito l’appuntamento con i trials olimpici del ’64 e ha scoperto una nuova passione. I pipistrelli. Si laurea in biologia e concentra i suoi studi di dottorato sui chirotteri. Li segue dagli alberi di Central Park fino alle montagne di Trinidad, dove arriva a contare 80 specie diverse camminando sopra 5 metri di cacca di pipistrello. Poi li insegue a Panama, in Sud America e in Australia dimostrando che quelli volano non solo grazie agli ultrasuoni ma anche attraverso la vista. Passa giornate intere sdraiata di schiena a osservarli e a 28 anni i medici le diagnosticano la sclerosi multipla. E’ costretta a rinunciare al sogno di laurearsi anche in medicina, senonchè dopo 7 anni quegli stessi medici le comunicano un piccolo errore. «Scusa, ci eravamo sbagliati. Eri sana come un pesce».
Poco male, Julia riprende a correre, in strada e nella vita. Dopo 25 anni da biologa, decide che vuole fare la psichiatra infantile e nel ’96 si laurea all’ Albert Einstein College of Medicine, nel Bronx. Ha 53 anni, è la più vecchia del corso. «Le donne della mia famiglia hanno vissuto fino a 90 anni e non hanno perso colpi fino a 89 – sorride il giorno del diploma – credo di avere ancora qualche anno per divertirmi».
E infatti rieccola qua pronta a correre di nuovo la corsa che le cambiò la vita. «Completare quella gara fu un momento decisivo per me. Capii che se fossi riuscita a gestire quel tipo di pressione, avrei potuto fare qualunque cosa nella vita, essere me stessa e sentirmi libera. Proprio come quando correvo e credevo di essere un gran bell'animale».

ALIAS N. 42 - 5 NOVEMBRE 2011

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