“Non mi riuscì,
allora, né mi riuscirebbe oggi, pronunciare una sola parola su quel
dibattito che accompagnò fino alla nausea l'uscita del romanzo che
Pratolini intitolò Metello, con un nome proprio di persona
molto diffuso ancor oggi tra gli uomini nati a Firenze fino a 40-50
anni fa. Il giorno che a Pratolini dettero la laurea honoris causa
all'Università di Firenze, quando tutto fu finito e i due anziani
laureati (l'altro era Romano Bilenchi) si scambiavano, in casa di
Bilenchi, i saluti e gli abbracci, dissi a Pratolini una cattiveria
che l'amicizia mi consentiva: «A quei tempi - gli dissi - ai tempi
delle discussioni intorno al realismo, tu ascoltasti troppo i tuoi
consiglieri». Pratolini mi chiese: «Di chi parli?». «Parlo - gli
risposi - di coloro che, scrivendo di te e della tua opera,
invocavano Balzac. Tu non sei un visionario, un fantastico. Ma quei
tali dimostravano di non aver letto bene Balzac: che è un
visionario, un fantastico. Invece, te lo portavano a esempio di
realismo, di illustratore di costumi, di virtù e di vizi di una
società. Balzac come Beltrame della vecchia Domenica del Corriere».
Pratolini mi dette torto: «Non è vero, non li ascoltai». «Che tu
li abbia ascoltati o no, ormai ha poca importanza. A saper leggere i
tuoi libri, si conclude che quei tali non avevano letto bene né
Balzac né te».
Ho ripensato a quel
dialogo, ieri, quando mi è stato detto che Pratolini era morto. So
che quella mia cattiveria gli aveva fatto piacere. Mancò il tempo,
allora, di continuare il discorso. Gli volevo dire un'altra cosa che
in parte cercai di esprimere quando uscì un esile libretto dove
compariva una figura femminile, una «bandolera», quella sì tutta
pratoliniana, bella e resoluta. In filigrana appariva la città,
Firenze, nella quale si consumavano i giorni di una educazione
sentimentale, politica e letteraria. Scrivendo, mi sfuggirono parole
come «disperazione», «giovinezza disperata». Pratolini mi chiamò
al telefono e, ridendo, mi disse: «Io sarei quel giovane
disperato...».
Non so se riuscirò ora a
dire ciò che avrebbe completato questi colloqui e rivelato il senso
di un vecchio discorso che mi preme. Tutta l'opera di Pratolini ha un
solo personaggio: Firenze, una Firenze perduta, una Firenze
«malattia». Dica, chi vuole, che questo è il versante lirico. Sta
di fatto che quando la memoria ricorre alle pagine pratoliniane,
subito compaiono immagini, atmosfere, nomi, profumi, voci di una
città perduta che ormai trovano salvezza soltanto nei libri di
Pratolini. Le generazioni nate sotto il fascismo e quelle venute
dopo, hanno fatto appena in tempo, o non hanno fatto in tempo, a
conoscere quella città. Che, in fin dei conti, non è una città
reale, ma un luogo irreale in cui si rifugiano le memorie, i ricordi
e quel sentimento della contemporaneità che è la malinconia. Questo
sentimento trafigge l'opera di Pratoìini, l'attraversa e la strappa
ai dibattiti oziosi. È una città irredimibile. Lo sa bene Pratolini
che, a quest'opera di redenzione di un bene perduto, ha ispirato
tutti i suoi libri. È questa la via maestra che porta fino alle
ascendenze europee i romanzi di uno scrittore che la fretta delle
catalogazioni ha consegnato al neorealismo o al populismo o al
patetismo di un'educazione sentimentale di quartiere. Come dire che
la Firenze di Pratolini somiglia alla Parigi di Baudelaire revisitata
dai flaneurs benjaminiani o a quella Parigi di Delacroix scomposta e
ricomposta (di questi arbitrii di Delacroix, se ne accorse bene Italo
Calvino) secondo le necessità della pittura e l'ordine di una realtà
che non ha niente o poco a che fare con ia storia. Semmai, sono
queste le vie attraverso le quali si può ricongiungere l'opera di
Pratolini a Balzac.
Gli operai delusi, le
donne amate e tradite, i garzoni di bottega invidiosi del padrone, i
fascisti e gli antifascisti, i contadini che scendono in città per
tentare la fortuna in un'Italia che si affaccia all'Europa, i
socialisti che finiscono in galera o si rassegnano al silenzio quando
la speranza muore, tutta questa gente che traversa le strade di
Firenze compone l'universo pratoliniano.
Si ripensa a quel
venditore di «chicche» che la sera precedente la notte
dell'apocalisse se ne sta fermo nel vento gelido di piazza della
Signoria e non sa capacitarsi del vuoto che ha intorno a sé. Egli
porta il nome di un celebre caffè della raffinata Firenze dei
monumenti, delle lapidi, della memoria e della storia. Ma non è lui,
non è il soprannome che gli hanno attribuito a fare il personaggio:
è il grande vuoto che ha intorno. È la malinconia, il sentimento di
un'epoca. Di questo sentimento è materiata l'immagine di Firenze nei
romanzi di Vasco Pratolini.
“l'Unità”, 13
gennaio 1991
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