20.6.15

Cultura popolare e letteratura. Poetici proverbi (Carlo Carena)

Pietro Bembo nel ritratto di Raffaello
Nell’interesse verso le espressioni della cultura popolare in epoca verista tra la fine Ottocento e inizio del secolo scorso, trovò posto naturale il proverbio quale sapienza ed espressione viva e concreta, degna di giganteschi repertori come i celebri Proverbi siciliani di Pitrè e dell’applicazione della scienza filologica alla ricerca di fonti e alla definizione delle strutture.
Il tentativo ora compiuto in una serie di saggi, frutto di un convegno tenuto all’Università di Roma Tre a fine 2012, è quello di spostare l’attenzione e l’indagine alla funzione del proverbio in opere schiettamente letterarie: anzi, per la loro esemplarità, nei secoli letteratissimi tra fine Quattro e quel
Seicento in cui il proverbio è accolto con valore creativo nel contesto e nella forma di opere letterarie, dal sussiego del Bembo al poema eroicomico di Lippi, Tassoni e Francesco Bracciolini.
Per i letterati vigeva ancor prima la tradizione paremiologica della tarda grecità e i nuovi repertori perfettamente organizzati non solo nelle inarrivabile raccolte erasmiane già assai più letterarie che popolari, ma anche, per rimanere in casa nostra, nella raccolta pioneristica del Proverbiorum libellus di Polidoro Virgili che, pubblicato a Venezia nel 1498, ebbe solo la sfortuna d’incappare due anni dopo nella Adagiorum collectanea del mago di Rotterdam, prodromo delle Adagiorum chiliades dei decenni successivi.
I Motti di Pietro Bembo, di cui si occupa negli Atti di questo Il proverbio nella letteratura italiana dal XV al XVII secolo (Vecchiarelli editore, 2015) Luca Marcozzi, furono composti fra 1506 e 1508 a Urbino. Strutturati in 312 endecasillabi a rime baciate, spiegano un contenuto festoso in un ambiente cortigiano, sicché furono espunti dall’autore stesso dal catalogo delle sue opere e rimasero manoscritti fino alla pubblicazione di Vittorio Cian nel 1888. Molti sono riconducibili ai recentissimi repertori di Polidoro e di Erasmo, ma per una cinquantina si deve risalire direttamente ai fluenti repertori della classicità. E la scelta è, prevedibilmente, tale da permettere scambi e incastri anche verbali con le Rime stesse (1530). Esorta uno dei Motti bembiani: «Misero, tristo, a che cosa ti sfaci, | e perché non più tosto vivi e taci?»: e nel finale di una canzone s’incontra: «Che parli, o sventurato? | a cui ragioni? a che così ti sfaci, | e perché non più tosto piagni e taci?».
Al Bembo segue l’Aretino, nelle cui opere, le satirico-pasquinesche come le commedie, i dialoghi e le lettere, in forma più o meno diversa, le formule proverbiali trovano allegro e proprio posto, appannaggio soprattutto di figure depositarie del sapere e del linguaggio popolaresco con le sue particolari strutture: servi, comari, cortigiane (si veda il saggio di Paolo Marini, Formule proverbiali e sentenziose in Pietro Aretino). Il sapere arcaico, contadino e pastorale, ispirato a consapevole moderazione anziché a ideali difficili ed eroici, introduce ironia più o meno consapevole nell’opposto mondo aulico e cavalleresco. Nell’incontro e scontro servo-padrone, povero-ricco, giovane-vecchio, incolto-colto, forbito-scollacciato s’instaura così quella che Marini definisce «una dialettica alto-basso», fino all’incomunicabilità; e mediante la velatura proverbiale si configura e risplende la particolare concretezza del sapere e della parola dello strato subalterno della società.
Ma anche nell’àmbito della lirica il proverbio compare, come già insegnato dal Petrarca, soprattutto nel finale dei componimenti quale riassunto del senso dell’intero testo e chiusa epigrammatica comoda e prefabbricata di forte incisività. Come in questa ultima terzina di un sonetto ammonitore del Tebaldeo a un amico: «Chi troppo se alza è forza che ruine, | barca che al vento sia non può star quieta, | chi vól rose convien che entri in le spine» (citato nel saggio di Franco Tornasi dedicato appunto alla lirica quattro-cinquecentesca).
Come si può poi facilmente immaginare, il proverbio si trova a casa sua nel poema eroicomico, dove già nel titolo del genere sono alla loro più alta temperatura tutti i contrasti sopra indicati, come anche sulle labbra di Sancho Panza - e ancora assai più tardi su quelle di Sam Weller servitore di Samuele Pickwick nel Cicolo Pickwick di Dickens. Disseminato a volte in un’ottava di quei poemi, altra volta esso le riempie per intero con sequenze incalzanti: «La pentola sul colmo del bollire | s’insala, e ’1 ferro batte-si vermiglio, | e chi non coglie in sua stagion le frutta, | marce le spera e per le vie butta» si ha nel buffo Torracchione desolato di Bartolommeo Corsini, citato in «Il proverbio nel poema eroicomico seicentesco» di Massimiliano Malavasi.
Il culmine è attinto probabilmente in pieno Seicento nel Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, dove l’addensamento dei modi di dire raggiunge ermetismi linguistici fiorentini strabilianti: «Qui, dice il Re, si dà sempre in budella, | sicché mi cascan le braccia e l’ovaia; | mentre costui a ogni cosa appella | e co’ suoi punti mena il can per l’aia» ecc. E ancora in Lippi si hanno litanie del tipo: «Chi pecora si fa, non si lamenti | se va del lupo a satollar i denti... | e se ’1 gridare e il bravar loro vi assorda | il can che abbaia raro avvien che morda» ecc. ecc.


“Il Sole 24 ore Domenica”, 22 marzo 2015

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