20.6.15

La “Gita al faro” di Virginia Woolf (Renzo S. Crivelli)

Quando Virginia Woolf cominciò a scrivere uno dei suoi più bei romanzi, Gita al faro, uscito nel 1926, pensò di chiamarlo «un’elegia», forse in ottemperanza alla convinzione, comune anche con l’amico poeta Thomas S. Eliot, che il genere romanzesco avesse terminato i suoi giorni con Flaubert. Certo, c’era stato, alcuni anni prima, il Joyce dell'Ulisse, ma la lettura di quest’opera sperimentale l’aveva oltremodo convinta che sul quel fronte non ci fosse più spazio innovativo. Invece Gita al faro, in perfetta sintonia con l'Ulisse, rappresentò una delle vette più alte dell’indagine della psiche femminile (con i personaggi della signora Ramsay e della pittrice dilettante Lily Briscoe) condensata nella cornice narrativa di un romanzo (non era stato forse Bachtin a dire che questo genere non avrebbe mai potuto morire?).
A dire il vero Woolf sceglie, come “teatro” del flusso di coscienza, la psiche di Lily (la signora Ramsay è come un invaso entro cui convogliare le acque possenti e incessanti di quel flusso), che in tutto il romanzo — distribuito nell’arco di dieci anni — si dibatte fra desideri repressi di amore materno e paterno, in una confusione di ruoli che fa pensare all’idea woolfiana del perfetto artista: un essere androgino, come aveva sostenuto un grande romantico come Coleridge. Lily è ospite dei coniugi Ramsay, lei bellissima e irraggiungibile (come Julia, la madre della scrittrice), lui distaccato e troppo intellettuale per dispensare dolcezza (come Leslie, il padre, professore universitario e filosofo). I Ramsay vivono nella dimensione appagante della middle-class, casa sontuosa a Londra, villeggiatura in riva al mare scozzese dove il giardinetto antistante la spiaggia fronteggia, in lontananza, un’isoletta con il faro.
Nella prima parte del romanzo, infatti, si favoleggia di una «gita al faro» (dove a quei tempi c’erano ancora i guardiani, con tanto di famiglia); in quella mediana si parla del passato recente in cui è venuta a mancare proprio la signora Ramsay, che ha lasciato un vuoto totale nella famiglia; nella terza parte assistiamo a una sofferta diversione psicologica: Lily, «innamorata» della signora Ramsay, scopre la realtà del mondo maschile avvicinandosi timidamente al signor Ramsay e riesce a “conciliare” due universi difficilmente sovrapponibili attraverso la realizzazione di un suo quadro, iniziato dieci anni prima e portato a termine alla fine, quale suggello di un’operazione psicoanalitica riuscita.
Woolf respira, nel primo dopoguerra a Bloomsbury, un’aria estremamente fluida e sperimentale. Sono gli anni del parallelismo delle arti sancito dal famoso saggio Lo spirituale nell’arte di Kandinsky, e nel suo salotto si incontrano pittori (la sorella Vanessa è a sua volta una valida artista) e teorici del Postimpressionismo come Roger Fry. In quelle discussioni da salotto tra i maggiori intellettuali del tempo emerge sempre più, da un lato, la spinta verso una nuova visione del ruolo femminile (culminata nel saggio Una stanza tutta per sé), e, dall’altro lato, la possibilità, per l’autore Modernista, di far ricorso alle tecniche della pittura, della musica e della nascente cinematografia.
Lily è figlia di questa fervida atmosfera (nel romanzo ha gli stessi anni dell’autrice), e il suo quadro, messo sul cavalletto en plein air nel giardinetto davanti al mare (un contesto che richiama St. Ives, il resort in Cornovaglia dove i Woolf erano soliti trascorrere le vacanze), mostra un’impostazione decisamente figurativa: la donna sta ritraendo la casa alla cui finestra compare la signora Ramsay con il figlioletto. Il problema “tecnico” di Lily è subito appariscente: nel dare volto all’amica non riesce a trovare un equilibrio fra la figura e il paesaggio. È la personalità della signora Ramsay a sovrastare Lily, il suo modo pervasivo di «costruirsi la vita attorno», una donna così piena di fascino da soggiogare la povera pittrice, non molto fortunata nella vita, anche dal punto di vista sentimentale.
Woolf entra nella psiche di Lily con grazia ma anche con pervasività quasi spietata. È un’apoteosi del “realismo” deliamente che ci riserva sorprese continue, collegamenti psico-analitici, intuizioni e paure, frustrazioni per un amore così grande da non poter esser corrisposto. E nella terza parte di Gita al faro (uscito da poco per Einaudi nellabella traduzione di Anna Nadotti), quando il viaggio simbolico in barca potrà essere fatto ma non avrà più le valenze mitiche di dieci anni prima — allora rappresentava un traguardo irraggiungibile e quindi un sogno inalienabile —, Lily rimetterà il suo cavalletto nello stesso posto, per cercare di ultimare il suo quadro interrotto. Ma il polo “femminile” si sarà dissolto, quel ritratto della signora Ramsay sarà come un’icona del desiderio; mentre emergerà quello maschile, prepotente, a colmare il vuoto affettivo di Lily. E nel gesto creativo finale del romanzo la donna riuscirà a introdurre sulla tela un’area trasversale, simbolizzando un nuovo equilibrio della sua vita con un triangolo in cui i due poli (maschile e femminile) si armonizzano con il terzo polo: l’Io della donna. E il metodo che risolve la “visione” è diventato astratto. Triangolo e linee che fanno pensare a Kandinsky.


“Il sole 24 ore Domenica”, 22 marzo 2015

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