19.6.15

Elia Kazan, un archetipo (Massimo Raffaeli)

La riproposta dello script di America America (in realtà un racconto vero e proprio, asciutto e «fatale»); gli Appunti di regia; il documentario di Scorsese e Jones A letter to Elia: torna, in tutta la potenza amorevole del suo immaginario, il buon allievo del reazionario John Ford e del rivoluzionario Aleksandr Dovzenko
In una delle sequenze più memorabili della storia del cinema si vede un ragazzo perso tra la folla che sbuca dalla sotterranea di Ellis Island per approdare finalmente sotto il cielo di New York; la folla prosegue nella corsa ma il ragazzo si ferma di colpo e si inginocchia per baciare il suolo come fosse davvero arrivato nella Terra Promessa. Nel biancoenero che non potrebbe essere più spoglio, arido e rugoso fino alla violenza sentimentale, non è solo girata la scena più celebre di America America (un film del 1963 meglio noto in Italia per il sottotitolo Il ribelle dell'Anatolia) ma viene contenuto in essenza il cinema di Elia Kazan.
Elia Kazan
Di evidenti venature autobiografiche, tale è la storia che abita appunto, America America, oggi riproposto nella traduzione di Nicola Manuppelli (Mattioli 1885) a quasi mezzo secolo da quella a firma nientemeno di Vincenzo Mantovani, comparsa nei «Quaderni della Medusa» Mondadori in contemporanea con l’uscita del film. Se pure è meno di un romanzo, non si tratta tuttavia di un semplice soggetto cinematografico o come oggi si dice di uno script, ma di un racconto vero e proprio, di stile asciutto e di cadenza persino fatale. La vicenda di Stavros (il giovane protagonista in fuga dalla natia Anatolia sotto il giogo della dominazione turca alla fine dell’Ottocento) semmai richiama in sintesi tanto la ferrea dinamica del romanzo di formazione quanto l’ondivago percorso di un romanzo picaresco. Scappato dal deserto-prigione delle sue montagne spalle la famiglia e fa tappa a Costantinopoli, come se questo fosse l’antefatto del mito americano: lo si vede sopravvivere nelle vesti di hamal (dunque un poverissimo facchino), poi di cospiratore rivoluzionario, di promesso sposo in un’agiata famiglia borghese e infine nei panni stracciati di passeggero clandestino, tra la folla in cui convivono avidi affaristi e paria disperati come lui, stipati in un cargo diretto a New York.
Nulla ha potuto comunque scalfire l’utopia della Terra Promessa perché ogni prova del suo duro apprendistato l’ha viceversa, resa ancora più cosciente e inderogabile. Stavros non ha davanti a sé che il cambio del nome (egli sarà d’ora in poi un qualunque «Joe Arness») e l’umile lavoro del lustrascarpe ma il suo approdo è la tacita conferma che l'American Dream esiste davvero, che sul serio l’utopia e l'esserle fedeli nonostante tutto, è un tratto primordiale della vita umana. Essa non serve a niente, però serve a muoversi nel mondo e, letteralmente, a camminare, dirà a decenni di distanza uno scrittore tanto diverso da Kazan cioè Eduardo Galeano. Infatti, se Stavros non trova le parole per commemorare il proprio sogno, il suo riflesso elementare è un omaggio allo stato puro: «Scoppiano a ridere. E la prima vera genuina risata che sentiamo da Stavros da quando è partito da casa Anche gli altri ridono. Tutti stanno ridendo. Gli otto ragazzi (...) scendono la passerella. Stavros è in testa. Cade in ginocchio e bacia la terra. Poi si rialza con un grande urlo di gioia».
In questo buon allievo sia del conservatore John Ford sia del rivoluzionario Dovzenko, il cinema di Kazan per sua espressa e reiterata menzione, non ha mai mirato ad altro che a trasmettere «una emozione vera», paradosso dissimulatorio di un regista che rimane tra gli intellettualmente più complessi del cinema americano. Ne è nota d’altronde la trafila: classe 1909, nato nella minoranza greca in Turchia ma formatosi negli Stati Uniti, debutta come attore e poi come regista teatrale dirigendo, fra gli altri, i drammi di Arthur Miller e Tennessee Williams; convinto assertore del metodo Stanislavskij, è trai fondatori dell’Actor’s Studio, di poco successivo alla sua prima regia cinematografica Un albero cresce a Brooklyn (1945), cui seguono una ventina di film, tra cui vanno annoverati alla stregua di capolavori (oltre ad America America) Viva Zapata! (’52), Fronte del porto (’54), La valle dell'Eden (’55) e l’ultimo, Gli ultimi fuochi, del 1976, tratto da The last tycoon, il romanzo postumo di Scott Fitzgerald, malinconicissimo omaggio al cinema in quanto utopia del secolo XX, con un indimenticabile Robert De Niro.
Ancora più noto l’episodio che divide nettamente la sua vita in due, cioè la testimonianza delatoria davanti alla Commissione McCar-thy per le attività antiamericane, il 10 aprile ’52, quando, da ex comunista fa il nome di una decina di colleghi di Hollywood e di fatto li condanna al carcere come alla morte civile. Ne avrà distrutta di riflesso la sua stessa esistenza e prima di morire (a New York, il 28 settembre del 2003) dirà a sua discolpa di avere allora scelto, fra capitalismo e bolscevismo, la più tollerabile delle due alternative: al riguardo, Goffredo Fofi (in Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema, Donzelli 1995) legge in quell’episodio, che rivela un uomo insieme «coraggioso e corruttibile», l’altra faccia non meno necessaria del giovane Stavros ossia in altri termini, l’enigma di un’arte cinematografica vocata a sondare le più terribili contraddizioni e vergognose ambiguità dell’esistenza umana.
Lo conferma adesso uno splendido cofanetto delle Edizioni della Cineteca di Bologna che riunisce un volume dello stesso Kazan, Appunti di regia (a cura di Robert Cornfield, traduzione di Manuela Vittorelli) e il film documentario di Martin Scorsese e Kent Jones, A letter to Elia, in originale con sottotitoli (libro, pp. 362,+dvd, € 25.00). Scandito per cronologia e opere, fra produzione teatrale e cinematografica il libro assembla non solo gli autografi kazaniani relativi a ogni singola lavorazione ma anche dichiarazioni e articoli usciti sui giornali, note sparse, pagine di diario, stralci dalla corrispondenza e carteggi con i principali colleghi e colleaboratori. Qui, a proposito di America America, basterebbe la testimonianza uscita sul «New York Times» in cui Kazan osserva «Ho cominciato a sentire sempre più spesso, come un canto, il grido ‘AmericaAmerica’. Pensavo che queste cose succedessero solo all’inizio del secolo, all’epoca in cui si svolge il mio film. E invece no. L’America ha ancora un significato profondo e importante. (...) I disoccupati, i miserabili costretti a lavorare per pochi soldi, in Grecia in Turchia venivano tutti a dirmi: ‘Come si fa a entrarci?’, ‘Portami con te!’, ‘Prendi mio figlio!’».
Perciò una evidente proiezione autobiografica è in A letter to Elia, film-mosaico in cui si combinano la commozione e la riconoscenza specie quando Scorsese, voce fuori campo e co-regista ricorda le sue prime visioni kazaniane alla metà degli anni cinquanta nei minuscoli cinema di little Italy o, già seduto più comodamente (il che vuol dire in questo caso più devotamente), in una grande sala come il «Commodore». Rammenta la «potenza amorevole» di immagini da cui non è mai riuscito a prendere congedo come fossero archetipi ossessivi senza i quali, e lo ammette apertamente, il suo stesso cinema non sarebbe esistito. Discendente di emigranti siciliani in tutto simili agli esuli armeni, Martin Scorsese comincia a parlare quando sta andando sullo schermo la sequenza della nave di Stavros già in vista di Ellis Island: è lì che il regista si sorprende a dire, più o meno, che quel film non ha bisogno di commenti ulteriori perché Stavros può essere ognuno di noi.

alias – il manifesto, 19 novembre 2011


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