La riproposta dello
script di America America (in realtà un racconto vero e
proprio, asciutto e «fatale»); gli Appunti di regia; il
documentario di Scorsese e Jones A letter to Elia: torna, in
tutta la potenza amorevole del suo immaginario, il buon allievo del
reazionario John Ford e del rivoluzionario Aleksandr Dovzenko
In una delle sequenze più
memorabili della storia del cinema si vede un ragazzo perso tra la
folla che sbuca dalla sotterranea di Ellis Island per approdare
finalmente sotto il cielo di New York; la folla prosegue nella corsa
ma il ragazzo si ferma di colpo e si inginocchia per baciare il suolo
come fosse davvero arrivato nella Terra Promessa. Nel biancoenero che
non potrebbe essere più spoglio, arido e rugoso fino alla violenza
sentimentale, non è solo girata la scena più celebre di America
America (un film del 1963 meglio noto in Italia per il
sottotitolo Il ribelle dell'Anatolia) ma viene contenuto in
essenza il cinema di Elia Kazan.
Elia Kazan |
Di evidenti venature
autobiografiche, tale è la storia che abita appunto, America
America, oggi riproposto nella traduzione di Nicola Manuppelli
(Mattioli 1885) a quasi mezzo secolo da quella a firma nientemeno di
Vincenzo Mantovani, comparsa nei «Quaderni della Medusa» Mondadori
in contemporanea con l’uscita del film. Se pure è meno di un
romanzo, non si tratta tuttavia di un semplice soggetto
cinematografico o come oggi si dice di uno script, ma di un
racconto vero e proprio, di stile asciutto e di cadenza persino
fatale. La vicenda di Stavros (il giovane protagonista in fuga dalla
natia Anatolia sotto il giogo della dominazione turca alla fine
dell’Ottocento) semmai richiama in sintesi tanto la ferrea dinamica
del romanzo di formazione quanto l’ondivago percorso di un romanzo
picaresco. Scappato dal deserto-prigione delle sue montagne spalle la
famiglia e fa tappa a Costantinopoli, come se questo fosse
l’antefatto del mito americano: lo si vede sopravvivere nelle vesti
di hamal (dunque un poverissimo facchino), poi di cospiratore
rivoluzionario, di promesso sposo in un’agiata famiglia borghese e
infine nei panni stracciati di passeggero clandestino, tra la folla
in cui convivono avidi affaristi e paria disperati come lui, stipati
in un cargo diretto a New York.
Nulla ha potuto comunque
scalfire l’utopia della Terra Promessa perché ogni prova del suo
duro apprendistato l’ha viceversa, resa ancora più cosciente e
inderogabile. Stavros non ha davanti a sé che il cambio del nome
(egli sarà d’ora in poi un qualunque «Joe Arness») e l’umile
lavoro del lustrascarpe ma il suo approdo è la tacita conferma che
l'American Dream esiste davvero, che sul serio l’utopia e
l'esserle fedeli nonostante tutto, è un tratto primordiale della
vita umana. Essa non serve a niente, però serve a muoversi nel mondo
e, letteralmente, a camminare, dirà a decenni di distanza uno
scrittore tanto diverso da Kazan cioè Eduardo Galeano. Infatti, se
Stavros non trova le parole per commemorare il proprio sogno, il suo
riflesso elementare è un omaggio allo stato puro: «Scoppiano a
ridere. E la prima vera genuina risata che sentiamo da Stavros da
quando è partito da casa Anche gli altri ridono. Tutti stanno
ridendo. Gli otto ragazzi (...) scendono la passerella. Stavros è in
testa. Cade in ginocchio e bacia la terra. Poi si rialza con un
grande urlo di gioia».
In questo buon allievo
sia del conservatore John Ford sia del rivoluzionario Dovzenko, il
cinema di Kazan per sua espressa e reiterata menzione, non ha mai
mirato ad altro che a trasmettere «una emozione vera», paradosso
dissimulatorio di un regista che rimane tra gli intellettualmente più
complessi del cinema americano. Ne è nota d’altronde la trafila:
classe 1909, nato nella minoranza greca in Turchia ma formatosi negli
Stati Uniti, debutta come attore e poi come regista teatrale
dirigendo, fra gli altri, i drammi di Arthur Miller e Tennessee
Williams; convinto assertore del metodo Stanislavskij, è trai
fondatori dell’Actor’s Studio, di poco successivo alla sua prima
regia cinematografica Un albero cresce a Brooklyn (1945), cui
seguono una ventina di film, tra cui vanno annoverati alla stregua di
capolavori (oltre ad America America) Viva Zapata!
(’52), Fronte del porto (’54), La valle dell'Eden (’55)
e l’ultimo, Gli ultimi fuochi, del 1976, tratto da The
last tycoon, il romanzo postumo di Scott Fitzgerald,
malinconicissimo omaggio al cinema in quanto utopia del secolo XX,
con un indimenticabile Robert De Niro.
Ancora più noto
l’episodio che divide nettamente la sua vita in due, cioè la
testimonianza delatoria davanti alla Commissione McCar-thy per le
attività antiamericane, il 10 aprile ’52, quando, da ex comunista
fa il nome di una decina di colleghi di Hollywood e di fatto li
condanna al carcere come alla morte civile. Ne avrà distrutta di
riflesso la sua stessa esistenza e prima di morire (a New York, il 28
settembre del 2003) dirà a sua discolpa di avere allora scelto, fra
capitalismo e bolscevismo, la più tollerabile delle due alternative:
al riguardo, Goffredo Fofi (in Come in uno specchio. I grandi
registi della storia del cinema, Donzelli 1995) legge in
quell’episodio, che rivela un uomo insieme «coraggioso e
corruttibile», l’altra faccia non meno necessaria del giovane
Stavros ossia in altri termini, l’enigma di un’arte
cinematografica vocata a sondare le più terribili contraddizioni e
vergognose ambiguità dell’esistenza umana.
Lo conferma adesso uno
splendido cofanetto delle Edizioni della Cineteca di Bologna che
riunisce un volume dello stesso Kazan, Appunti di regia (a
cura di Robert Cornfield, traduzione di Manuela Vittorelli) e il film
documentario di Martin Scorsese e Kent Jones, A letter to Elia,
in originale con sottotitoli (libro, pp. 362,+dvd, € 25.00).
Scandito per cronologia e opere, fra produzione teatrale e
cinematografica il libro assembla non solo gli autografi kazaniani
relativi a ogni singola lavorazione ma anche dichiarazioni e articoli
usciti sui giornali, note sparse, pagine di diario, stralci dalla
corrispondenza e carteggi con i principali colleghi e colleaboratori.
Qui, a proposito di America America, basterebbe la testimonianza
uscita sul «New York Times» in cui Kazan osserva «Ho cominciato a
sentire sempre più spesso, come un canto, il grido ‘AmericaAmerica’.
Pensavo che queste cose succedessero solo all’inizio del secolo,
all’epoca in cui si svolge il mio film. E invece no. L’America ha
ancora un significato profondo e importante. (...) I disoccupati, i
miserabili costretti a lavorare per pochi soldi, in Grecia in Turchia
venivano tutti a dirmi: ‘Come si fa a entrarci?’, ‘Portami con
te!’, ‘Prendi mio figlio!’».
Perciò una evidente
proiezione autobiografica è in A letter to Elia, film-mosaico
in cui si combinano la commozione e la riconoscenza specie quando
Scorsese, voce fuori campo e co-regista ricorda le sue prime visioni
kazaniane alla metà degli anni cinquanta nei minuscoli cinema di
little Italy o, già seduto più comodamente (il che vuol dire
in questo caso più devotamente), in una grande sala come il
«Commodore». Rammenta la «potenza amorevole» di immagini da cui
non è mai riuscito a prendere congedo come fossero archetipi
ossessivi senza i quali, e lo ammette apertamente, il suo stesso
cinema non sarebbe esistito. Discendente di emigranti siciliani in
tutto simili agli esuli armeni, Martin Scorsese comincia a parlare
quando sta andando sullo schermo la sequenza della nave di Stavros
già in vista di Ellis Island: è lì che il regista si sorprende a
dire, più o meno, che quel film non ha bisogno di commenti ulteriori
perché Stavros può essere ognuno di noi.
alias – il manifesto,
19 novembre 2011
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