Tra lo scoppio della
prima guerra mondiale e l'intervento italiano intercorrono dieci
mesi. Lo stesso intervallo, giorno più, giorno meno, si riproduce in
occasione della seconda guerra mondiale.
Coincidenza troppo
ingombrante per essere considerata casuale, e che rinvia invece a
profili di lungo periodo dello Stato italiano. Quel complesso
dell'«ultima grande potenza», arrivata tardi all'unificazione,
esclusa dal «grande gioco» dell'equilibrio mondiale e dalle
spartizioni coloniali, e che aspira a giocare un suo ruolo. Negli
anni Trenta del secolo scorso sarà il più lucido ministro degli
Esteri del fascismo, Dino Grandi, a formulare la teoria del «peso
determinante», razionalizzando una disposizione già presente e che
aveva operato nella decisione dell'intervento del maggio 1915: le
dimensioni dell'Italia non le permettevano di agire da protagonista
ma le consentivano pur sempre di decidere quale piatto della bilancia
far prevalere col suo schieramento. Potranno essere in discussione
alleanze, da dismettere o da allacciare, motivazioni e rivendicazioni
della guerra da intraprendere, ma in ogni caso non sarà mai in
discussione l'intervento in sé, fattore considerato strettamente
connesso al «prestigio» del paese.
A ben vedere, è una
disposizione di fondo che sopravvive alla fine dell'imperialismo
italiano, sebbene disciplinata da una Costituzione che ripudia la
guerra e da una politica estera prudentissima nel tempo della guerra
fredda. Ma non appena salteranno gli equilibri del «secolo breve»
riaffioreranno gli impulsi che inducono gli italiani a infilarsi in
tutte le guerre che scoppiano, la costrizione di un malinteso
«prestigio nazionale» che impone la partecipazione a tutte le
missioni militari operanti sullo scenario internazionale.
E non a caso quando si ha
ormai la certezza che la guerra è inevitabile, nel luglio 1914, il
nuovo Capo di stato maggiore dell'esercito italiano, Luigi Cadorna,
formula un piano bellico che prevede l'invio sul Reno di 5 corpi
d'armata e due divisioni di cavalleria, rispettando la convenzione
militare con la Germania. Comincia rievocando questo episodio il
nuovo libro di Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra.
Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell'Italia tra il 1914 e il
1918 (Donzelli).
I nuovi equilibri
liberali
Nell'arco
di dieci mesi si produrranno la conversione dell'immagine della
Germania da modello ad antimodello, la crisi dell'internazionalismo
socialista e il passaggio al nazionalismo di settori importanti
dell'opinione di sinistra, repubblicana, mazziniana, la
trasformazione dei cattolici da intransigenti nemici dello Stato
unitario a clerico-patrioti (in continuità col precedente già
intervenuto durante la guerra di Libia) e, infine, il completo
riassetto degli equilibri interni alla classe dirigente liberale.
L'irredentismo
agitato per le masse si traduce nella «quarta guerra d'indipendenza»
(che era ancora la formula dei nostri libri scolastici, e anche di
qualche recente orazione presidenziale): Trento, Trieste, Istria,
qualcosa della Dalmazia. Invece Nizza, la Corsica, Savoia, Gibuti,
Malta, obiettivi agitati all'avvio delle ostilità, scompaiono
rapidamente dall'orizzonte: torneranno buoni nella prossima
occasione.
Le
classi popolari, fino a tre anni prima ritenute indegne di esercitare
il diritto di voto, sono ora chiamate a dare la vita per la patria.
Ma la cosa che all'autore preme sottolineare è che il «passaggio
dalla società dei notabili alla società di massa», che sarà uno
dei risultati irreversibili della guerra, viene però gestito con
ferrea capacità di controllo da gruppi di notabili. L'agile libretto
vuol essere anche una riflessione sulla «solitudine delle élites»
che gestiscono intervento e guerra senza accettare intromissioni.
Sono
chiamati in causa generali, preti, giornalisti del “Corriere della
sera” (vero giornale-partito che diviene house-organ del
bellicismo, soppiantando nella vicinanza al potere la “Stampa”
giolittiana di Frassati, favorevole alla neutralità). Nelle pagine
di Isnenghi troveremo potenti giornalisti coinvolti nella gestione
della guerra non meno dei generali (Albertini, Ojetti, Barami,
Fraccaroli), diaristi perplessi a futura memoria (Gatti) e anche
donne emancipate o in via di emancipazione, come
l'anarco-rivoluzionaria paladina dell'interventismo Maria Rygier, o
la cattolica-democratica Antonietta Giacomelli.
La
religione è coinvolta da subito nell'intervento. Cadorna,
cattolicissimo malgrado l'accostamento inevitabile del suo cognome a
Porta Pia, reintroduce i cappellani militari, non solo cattolici, ma
anche pastori e rabbini, se pure in misura molto esigua. Tra i tanti
ecclesiastici coinvolti spiccano Giovanni Semeria e Agostino Gemelli,
entrambi «religiosi che vengono bene accolti al Comando supremo»,
«uomini d'azione e di potere - interpreti di un volontariato
cattolico dai larghi orizzonti e imprenditori di lungo corso del
sacro», con direzioni di marcia non sovrapponibili, tuttavia, visto
che «Semeria aspira a coniugare i cristiani con la modernità,
mentre Gemelli - altrettanto moderno nei metodi - guarda
culturalmente all'indietro e aspira a indirizzare la “riconquista
cristiana” del mondo verso ciò che non teme di chiamare Medioevo».
Sono
molto pochi gli intellettuali che tentano di sottrarsi alla
regressione propagandistica del nazionalismo, e tra questi
l'esponente più illustre - ma ormai isolato - della cultura
italiana, Benedetto Croce: «Considero tutto ciò - scrive nelle
pagine dedicate alla guerra — come manifestazioni dello stato di
guerra. Non si tratta già di quesiti razionali, ma di urti tra
passioni; non di soluzioni logiche, ma di asserzioni d'interessi che,
sebbene altissimi, sono nazionali, ossia particolari; non di
ragionamenti, ma di finti ragionamenti, costruiti
dall'immaginazione».
Una piccola logica
di potenza
Ma
di fronte al dilagare del «trentotrientinismo», a quel
«Trento-e-Trieste», formula patriottica talmente indissolubile da
far pensare a molti italiani lontani dal fronte che si trattasse di
un'unica città (alcuni dicevano due città divise da un ponte, come
Buda e Pest), gioverà ricordare che è solo propaganda per le masse,
«favola bella» che gli «uomini d'ordine» (gli «atei devoti»
dell'epoca, aggiunge Isnenghi) lasciavano usare nelle piazze, senza
scaldarsi troppo in proprio. Forse sono proprio queste le
considerazioni che il lettore troverà più nuove, certamente
inusuali. Si scopre che in realtà Trento interessa molto poco, anche
se è importante portare il confine «naturale» sul Brennero. Molto
di più interessa Trieste, ma solo in quanto porto che può
assicurare il controllo sull'Adriatico «lago italiano».
Le
motivazioni della guerra sono tutte inscritte nella logica di
potenza, nella volontà di affermazione di un imperialismo italiano
che per tre decenni crederà di poter giocare un ruolo autonomo e
importante, in un mondo che la guerra avrebbe però messo in crisi,
distruggendo gli equilibri che avevano reso possibile l'egemonia
della vecchia Europa.
L'ondata
emozionale di patriottismo viene in prevalenza da sinistra. Nella
quasi totale revisione delle appartenenze che la guerra provoca c'è
ovviamente un «pullulìo di ex» (e Isnenghi qui riprende temi già
ampiamente trattati nel suo Ritorni di fiamma dello scorso anno). Si
forma la «strana coppia» Bissolati-Mussolini: il riformista
sconfitto al congresso di Reggio Emilia del 1912 e il giovane
rivoluzionario che l'aveva defenestrato dal partito.
«Energumeno»
non molto ben visto dai comandi, il futuro Duce, e dopo una lieve
ferita rispedito a fare ciò che meglio sa fare, cioè il
giornalista-agitatore, col sussidio datogli dal governo francese e
col compito - come si esprime il faccendiere Filippo Naldi con
l'ambasciatore di Francia - di «raccoglie(re) intorno a sé e
dirige(re) a un intento patriottico tutta la teppa dell'Italia
settentrionale». Ma bisogna aggiungere che le sfumature tra
interventismo «democratico», «rivoluzionario» o puramente
nazionalistico sono destinate ad attenuarsi nel corso del conflitto.
Al
di là di Cesare Battisti, imbalsamato nella dimensione di «martire»
antiaustriaco, dello stesso Salvemini, influente in ristretti circoli
intellettuali ma troppo professorale per parlare con successo alle
truppe, di un Mussolini dall'audience molto limitata, l'unica figura
che appare popolare è quella di Bissolati, ministro guerriero
ascoltato al fronte, dai fanti come dai generali. Resta ben poco di
socialismo riformista nella sua azione: avremo da parte sua
l'approvazione dei metodi di Cadorna, decimazioni comprese, col
triste primato conseguito dall'esercito italiano in questa forma di
governo terroristico della truppa («pura rappresaglia nel mucchio,
vendetta sociale allo stato puro», scrive Isnenghi), sia pur
raccomandando «moderazione», ma pure addivenendo a minacce di
fucilazioni «politiche» dei suoi ex-compagni dopo Caporetto.
Si
crea una «grande area trasversale dell'adattamento - progressivo o
di schianto - ai fatti compiuti» nella quale confluirebbero tutti i
tre grandi «partiti di raccolta» del neutralismo, cioè
liberal-giolittiani, cattolici e socialisti. Anche se è indubbio, il
grande adattamento ai fatti compiuti che la successione degli eventi
impone, si possono sollevare dubbi su alcuni giudizi di insieme che
Isnenghi suggerisce, assai più che teorizzare.«Perché e come una
nazione intera cambiò alleanze e diventò interventista», recita la
fascetta editoriale che accompagna il libro. Ma davvero l'Italia
intera diventò interventista?
Ci
sarà la fortissima pressione delle piazze del «radioso maggio» per
intimidire un Parlamento in maggioranza giolittiano e neutralista, e
che sarà chiamato a esprimersi solo a guerra già deliberata dal
sovrano. Però in Italia non abbiamo le grandi manifestazioni
popolari e proletarie che invadono le piazze inglesi e tedesche, e
l'agitazione coinvolge esclusivamente una borghesia irriflessiva e
manesca, che presidierà assai più le trincee del «fronte interno»
che quelle scavate al fronte. Ma le piazze non erano solo
interventiste, come testimoniano i numerosi studi raccolti nel volume
curato da Fulvio Cammarano (Abbasso la guerra! Neutralisti in
piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le
Monnier, pp. 606, euro 29).
Il neutralismo
silente
Cattolici,
socialisti e liberali giolittiani erano la stragrande maggioranza del
paese, e al di là di transfughi chiassosi e attivissimi il corpo
fondamentale di questa maggioranza d'Italia non sarà mai intimamente
conquistata alle ragioni della guerra. La costruzione di una memoria
pubblica fondata essenzialmente sul mito unificante della Grande
Guerra sarà impresa non semplice e laboriosa, inaugurata dalla
classe dirigente del primo dopoguerra e portata a compimento dal
fascismo.
In
più, avremo in Italia l'unico partito socialista, accanto a quello
socialdemocratico russo, che rifiuta la guerra e manterrà questo
atteggiamento fino alla fine del conflitto (e nei suoi risvolti
culturali e psicologici anche oltre), pur nelle difficoltà, le
attenuazioni, gli equilibrismi dialettici che accompagnano il
tormentato «non aderire né sabotare» (con un avvicinamento alle
ragioni del «patriottismo» che avverrà solo dopo lo sfondamento
delle linee a Caporetto, in un compromesso rifiutato da pochissimi, e
tra questi in primo luogo Giacomo Matteotti).
Da
qualche tempo Isnenghi sembra proporre in termini esemplari la
personalità di Cesare Battisti, «tragica figura di irredento
territoriale e redento politico», esempio di socialismo sensibile
alle ragioni della patria che i suoi compagni ebbero il torto di non
seguire, condannandosi a una sterile emarginazione dallo spirito
nazionale. Ma le stesse pagine di Isnenghi mostrano la fortuna quasi
inesistente del lascito politico di Battisti, a scapito della figura
di martire patriottico che assorbirà interamente il suo ricordo. E
la coerenza socialista nel rifiuto della guerra sarà alla base del
prestigio presso le masse lavoratrici di quel partito, che si
affermerà nelle prime elezioni democratiche del 1919 come il più
grande partito italiano.
Quella
che interviene dopo, come sappiamo, sarà un'altra storia, dove gli
errori commessi si sommeranno anche e soprattutto a un enorme carico
di violenza subita.
“il
manifesto”, 08.07.2015
Segnalo un errore, sicuramente del redattore dell'articolo. Il generale italiano che nel 1914 pensava al trasferimento di truppe al fianco della Germania guglielimina era Pollio, il predecessore di Cadorna, morto il 1 luglio 1914. Per il resto l'articolo sottolinea le aspirazioni, anche oggi presenti purtroppo, delle classi dirigenti italiane a considerarsi "grande potenza" e a partecipare alle spartizioni imperialiste, in spregio alla carta costituzionale e ad i reali interessi nazionali.
RispondiEliminasaluti Giuseppe Castronovo
Gentile Castronovo, non so dire se errore ci sia e se, in caso, sia da attribuire al recensore (Santomassimo) o all'autore del libro (Isneghi). Mettendo insieme le informazioni che trovo nell'articolo con quelle che trovo nel suo commento potrei ipotizzare che Cadorna, subentrando a Pollio nel luglio del 1914, ne "ereditò" i piani militari, ma voglio controllare che cosa effettivamente ha scritto Isnenghi, il cui libro spero di sfogliare in libreria e, piacendomi,di comprare.
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