12.7.15

Com'è piccolo quel Pico della Mirandola (Valerio Castronovo)

È raro il caso di un personaggio che ponga ai suoi contemporanei tanti imbarazzi nel tesserne l'elogio, da far sembrar loro insufficiente qualsiasi aggettivo. È ciò che capitò a Pico della Mirandola, fin dai suoi primi esordi. A maggior ragione, dopo la sua morte, si coniarono per lui le metafore più sublimi: lo chiamarono "fenice degli ingegni" e "prodigio della natura", lo esaltarono come un'autentica meraviglia del suo tempo. Ma anche nei secoli successivi si continuò a celebrare il conte mirandolano (Giovanni Pico discendeva da una famiglia di signori feudali di una piccola enclave fra gli Stati di Mantova e Ferrara) come un vero e proprio mostro di intelligenza e di sapere. Tanto che il suo nome finì col divenire sinonimo di talento straordinario e di insaziabile curiosità intellettuale, oltre che di una capacità mnemonica proverbiale. In effetti, nel breve arco della sua esistenza (durata poco più di trent'anni, fra il 1463 e il 1494), Pico non soltanto apprese le lingue più diverse - dall' ebraica all' araba alla caldaica - e riuscì a decifrare i misteri orfici e cabalistici, ma compì anche eccellenti studi di lettere e diritto, discettò con autorevolezza di filosofia e teologia e strinse legami con il cenacolo degli umanisti più prestigiosi della sua epoca, da Marsilio Ficino al Poliziano, a Lorenzo de' Medici (l'amicizia di quest'ultimo in particolare, detto per inciso, valse a tirarlo fuori dai guai almeno un paio di volte: quando venne catturato nel 1486 in fuga da Arezzo con l'amante, una nobildonna sposata; e due anni dopo, allorché i fulmini della condanna papale contro le sue tesi lo raggiunsero in terra di Francia. In quest'ultima circostanza Lorenzo gli consentì di riparare a Firenze, dove Pico avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni sotto la sua protezione).
C'era quindi una buona dose di verità nel fulgente ritratto che di lui tramandarono, sino a metà Ottocento, tanti scrittori e letterati. Ma c'era anche qualcosa - quell'insistenza nel raffigurarlo come una specie di portento eccezionale - che impediva di cogliere le fattezze specifiche e la complessità del personaggio.
La critica successiva ha lavorato molto a questa necessaria opera di cesello; ed in tempi recenti, attraverso successive elaborazioni influenzate in parte dall'idealismo, è giunta a scorgere in Pico uno dei rappresentanti più tipici, se non il più eminente, del pensiero umanistico; quasi il simbolo vivente dell'età rinascimentale. Gli scritti del mirandolano sul libero arbitrio, lo scontro con le autorità ecclesiastiche a proposito del suo programma dottrinale fortemente sincretista bollato come eretico da Innocento VIII, e l'attacco da lui sferrato contro l'astrologia (contro la possibilità di un influsso incontrollabile degli astri sull'uomo), parvero altrettanti elementi fondamentali per riconoscere a Pico non soltanto una visione dell'uomo e della sua libertà intimamente connessa agli ideali del Rinascimento, ma anche delle tendenze precorritrici, o delle felici intuizioni, in ordine agli sviluppi del pensiero scientifico e della secolarizzazione che, con l'individualismo, sarebbero poi stati all' origine della civiltà moderna.
Questa lettura dell'opera pichiana, oggi comune fra gli storici del Rinascimento, è largamente tributaria a due studiosi illustri come Cassirer e Garin, e in particolare a quest' ultimo, che nel 1937 pubblicò la prima monografia critica su Giovanni Pico e che negli anni successivi continuò a occuparsene nell'ambito dei suoi studi prediletti per il mondo e la cultura dell' Umanesimo. Sarà perciò destinato ad accendere i fuochi della polemica un saggio, ora tradotto anche in Italia, di William G. Craven (Pico Della Mirandola, Il Mulino) che propone una revisione radicale, da cima a fondo, delle interpretazioni fin qui fornite dai maggiori specialisti. La tesi di Craven (che insegna all'Università australiana di Canberra) è che gli scritti di Pico non presentano una omogeneità e una coerenza tali da configurare un sistema di pensiero unitario, e da autorizzare comunque i propositi che gli sono stati attribuiti.
A suo giudizio, il mirandolano non avrebbe affatto proposto una dottrina antropologica diametralmente opposta a quella medievale, né la sua ricerca di una conciliazione fra il cristianesimo e le altre religioni e le varie filosofie sarebbe stata ispirata dalla benché minima intenzione antidogmatica o sovvertitrice nei confronti dei canoni ecclesiastici tradizionali. In altri termini, le idee di Pico sarebbero state fraintese o travisate in base a un paradigma precostituito, ossia in base a quello che gli storici intendevano trovare in lui, e non invece a quanto egli disse effettivamente o pensava di dire. In sostanza, secondo Craven, si sarebbe prestata fede finora a una "segnaletica" errata, basata su idee e orientamenti preconcetti; per imboccare la direzione giusta, quindi, occorre non soltanto rimuovere quella segnaletica, ma capire anche come mai sia stata messa nel punto sbagliato.
Ed è proprio questa la duplice fatica cui l'autore si è sobbarcato lungo tutto il suo saggio. Su una questione fondamentale Craven si sofferma in modo particolare: quella dell'autonomia e della creatività umana. Egli mette in dubbio che Pico - nell'Oratio de hominis dignitate del 1486, uno dei testi più celebri del pensiero rinascimentale - abbia rivendicato la centralità e la libertà dell'uomo da ogni coazione e dipendenza esterna; sostiene invece che il mirandolano altro non volesse dire se non che l'uomo è libero di scegliere nel bene e nel male il livello della sua esistenza morale, con l'intento di ammonire che l'uomo, anziché rispecchiare la grandezza di Dio, può anche degradarsi al basso dell'animalità, a una condizione di pura vita vegetale. Il suo apologo non avrebbe quindi nulla a che vedere con la dottrina dell'uomo-Proteo, padrone auto-creativo del mondo delle forme, ma si limiterebbe ad affermare un' idea nient'affatto nuova o particolarmente audace, ossia che l'uomo si eleva o si abbassa secondo il suo agire.
Il libro di Craven, a dispetto del titolo, non è una biografia; ma non vuole essere neppure, a detta dell'autore, un'esercitazione di iconoclastia accademica, sebbene ne abbia tutta l'aria (giacchè all'opera di demolizione non fa seguito un lavoro di ricostruzione sulla scorta di un'ipotesi o di una interpretazione alternativa). Di certo si può dire che Craven non ha la mano leggera quando paragona la sorte capitata a Pico, per mano di alcuni suoi cultori, a quella delle vittime di Procuste. C' è perciò più di un motivo perché si apra un vero e proprio "caso storiografico", di quelli che non si esauriscono in qualche schermaglia garbata.


“la Repubblica”, 30 gennaio 1985  

Nessun commento:

Posta un commento