15.7.15

Gore Vidal. In morte di un grillo parlante (Daniela Daniele)

Presenza anomala nella famiglia democratica statunitense, imparentato con figure in vista della cultura liberal, da Jackie Kennedy a Jimmy Carter, Gore Vidal ha avuto da sempre il ruolo insidioso del grillo parlante del Gotha della politica americana. Nei ventidue volumi al suo attivo ha offerto letture provocatorie e controverse della storia ufficiale americana, dal ruolo di Roosevelt nell'attacco di Pearl Harbor alla più recente guerra preventiva di cui individuò i primi segni nel conflitto con il Messico e poi nel «national-security state» inaugurato da Henry Truman (Perpetual War for Perpetual Peace, 2002).
Scrittore abile e poligrafo, ha aperto, con lo sguardo informato dell'insider, inediti scenari sul potere politico e sulle sue icone. La sua residenza a Ravello ha avuto per anni i tratti di un esilio dorato che gli ha dato l'agio di incontrare capi di stato e autori del calibro di Christopher Isherwood e Tennessee Willliams.
Nella lussureggiante costiera amalfitana amava rileggere i classici americani e riscrivere la storia d'America in una forma resistente ai generi letterari come è tradizione del new journalism, mescolando, sin dal primo incontro con l'opera di Stephen Crane, cronaca e finzione, e facendo della letteratura un luogo di radicale revisione storica sospeso tra romanzo e biografia. In grado di impersonare icone americane come Lincoln (1984) in ritratti romanzati molto documentati, senza rinunciare alle dimensioni epiche del personaggio, Vidal ha narrato i risvolti soggettivi delle vicende collettive di una nazione, senza tralasciare figure apparentemente marginali nell'eroica ascesa dei padri fondatori. Si pensi a Burr (1973), di cui ha intessuto la vita nelle forme di un diario immaginario. Nella doppia veste di narratore e di saggista, Vidal ha illuminato di vere presenze la scena politica americana ingessata dai protocolli istituzionali, guardando al di là dei resoconti ufficiali. Non diversamente da E. L. Doctorow, Joan Didion e Don DeLillo, ha raccontato in piena libertà una storia americana fuori dai cliché, facendo della narrativa un luogo di rivelazione di verità nascoste.
Grande conoscitore della storia degli Stati Uniti e consigliere di intellettuali e statisti, nella sua villa italiana amava circondarsi di personalità della politica e della cultura, uscendone malvolentieri, come nella rara apparizione, nel 1988, alla Fondazione Crawford di Sant'Agnello di Sorrento dove, da grande affabulatore, intrattenne un pubblico di non addetti sul rapporto tra due espatriati in Italia: il grande Henry James Jr. - un maestro inarrivabile esclusivamente dedito alla sua arte - e lo scrittore popolare Francis Marion Crawford, che, come lui, aveva scelto l'esilio sulla costiera campana, intraprendendo la strada del romanzo popolare. Come Crawford, Vidal è estraneo alle raffinatezze formali di James, ma, come ha scritto Richard Ambrosini in un recente volume a cura di Gordon Poole (Di Mauro, 2011), ha studiato a fondo la storia antica e i contesti italiani per intrecciarli mitograficamente con le vicende recenti dell'impero globale. D'altronde, fu proprio lui a riattualizzare, prima della coppia Negri-Hardt, la storia della Roma imperiale per illuminare i nuovi scenari internazionali, raccontando, in The Last Empire (2001), i complotti, gli intrighi le perfidie e le ambizioni individuali che muovono segretamente la storia delle nazioni.
Nella condizione di dissidente che, in patria, lo ha reso inviso a gran parte della stampa americana, che lo ha tacciato anche di antisemitismo, Vidal ha narrato, in chiave fittizia e non, tutti i momenti chiave della storia politica statunitense senza evitare il confronto con l'industria culturale, avendo lavorato nei teatri di Broadway e alla sceneggiatura hollywoodiana di Ben Hur, nello spazio dialettico di un romanzo storico già postmoderno. Pur privilegiando un realismo attento al mutare dei costumi che lo avvicinano più alla prosa tersa di John Updike e di Alison Lurie che alla scuola di James T. Farrell e di Hemingway su cui si è formato, dopo il successo di Dallas, Vidal ha raccontato per primo l'America e le amnesie dentro le dinamiche forsennate della sua iconografia ufficiale, o attraverso una telenovela (Duluth, 1983). Con lo stesso sguardo satirico e irriverente, ha dedicato, nel 1968 (Myra Breckinridge) un romanzo a un transessuale, contro l'ipocrisia dei rigidi protocolli eterosessuali di Washington.
Per riprendere una definizione di Paul Barman, con l'appellativo di «Patriotic Gore», non ci riferiamo solo all'uomo che nel 1943 ha perso in guerra l'uso parziale delle ginocchia, ma al dissidente che, nella tradizione democratica della disobbedienza civile americana, ha difeso fino alla fine un'idea di democrazia che non si consuma solo tra i marmi del Congresso. Con il suo rigore di storico e il gusto per il gossip con cui anche Truman Capote intrecciava i giochi del potere alle cronache mondane, Gore Vidal ci lascia un vasto patrimonio di narrazione e di conoscenza dello spettacolo della politica a cui, come il nonno senatore, anche lui, inizialmente, aveva ambito, diventando, invece, un cronista d'America fedele agli ideali della sua costituzione.


il manifesto, 2 agosto 2012

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