3.7.15

“Indigence”. Lettere di Samuel Beckett (Nicola Gardini)

C'è una parola nel secondo volume dell’epistolario di Samuel Beckett (The Letters of Samuel Beckett. II. 1941—1956, pubblicato di recente da Cambridge University Press, due anni dopo il primo, sotto la brillante direzione di George Craig e altri) che riassume non solo il senso di un periodo essenziale - quello tra il 1941 e il 1956 -, ma di tutta un’opera: «indigence», in francese.
La bella parola di origine latina compare in una lettera del 3 gennaio 1951, indirizzata all’amico Georges Duthuit, critico d’arte, confidente e corrispondente privilegiato. Con una lucidità e una chiarezza di cui non sembra né capace né desideroso altrove Sam sta formulando l’estetica di En attendant Godot, la sua nuova commedia: la rappresentazione occorre che si sviluppi unicamente dalle parole; anche il cielo, se pure c’è un cielo, va evocato dal testo, non dall’allestimento teatrale. Scene, musica, fronzoli di qualunque tipo, via. L’arte drammatica (ma alla fine ogni arte, perché non esiste parentela tra le arti) deve fare da sola; o cade nella trappola dell’inessenziale.
La mancanza - l’«indigence», appunto - provoca una sorta di perfezione; dà potere al poco e quel poco lo tramuta in un tutto. Un filo divide la pienezza dal nulla, la vita dalla morte. Anzi, i due concetti si compenetrano, escono dallo spazio matematico delle antitesi. Dunque, c’è felicità nella rinuncia: quella del resistere, dell'avvicinarsi al grado ultimo della capacità di essere; della massima spoliazione.
Di povertà parlano anche altre lettere, e non in termini di poetica. Indigente, infatti, è oltre all’arte anche l’artista, il quale tenta di campare con i magri proventi delle traduzioni e delle lezioni (a un certo punto invoca Francesco d’Assisi, che della povertà fece un credo) e di promuovere la sua letteratura nonostante lo scarso interesse di critici ed editori; e sgobba fino a sfinirsi, fino a non aver niente da dire. E poi, soprattutto nelle lettere del periodo intorno ai romanzi della trilogia (a proposito, Einaudi ha appena ripubblicato Malone muore, tradotto da Aldo Tagliaferri e prefato da Gabriele Frasca), abbondano le riflessioni - diffìcili, rarefatte, stupende - sull’assenza, su quel che non si ha la virtù di toccare, sull’imprendibilità del tempo e dello spazio, sull’evanescenza del conoscere e - questione centrale - sulla rinuncia all’inglese, la lingua madre.
Queste lettere mostrano che il Beckett uscito dalla guerra lavora, attraverso la scrittura così come attraverso la lotta quotidiana per la sopravvivenza, alla messa a fuoco definitiva di una visione incontestabilmente anti-narcisistica; anti-biografica; addirittura anti-maschilistica. "Basta erezioni", dichiara al solito Duthuit. Nel nuovo sistema logico dell’«indigence» anche il creare e il contrario dell’atto procreativo significano lo stesso.

il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2011


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