29.8.15

Classici. Asor Rosa legge Tocqueville

Un testo di vent'anni fa. Una lettura convincente e attualissima. (S.L.L.)
Alexis de Tocqueville in una caricatura di Honoré Daumier (1849)
La presente fortuna del pensiero di Tocqueville in Italia si deve, a mio avviso, ad alcune buone ragioni e a parecchi fraintendimenti. Le buone ragioni si restringono in sostanza ad una: pochi altri pensatori moderni hanno come Tocqueville esplorato natura, funzioni, pregi e limiti della democrazia; il fatto di aver compiuto questa indagine come dall’esterno, nella posizione di un spettatore non complice ma attento, interessato e sovranamente onesto, non limita ma aumenta i pregi del suo punto di vista.
Siccome noi oggi viviamo — e non solo, secondo me, in ambito italiano, dove però, certo la cosa assume una gradazione sovreccitata, spinta, ma a livello planetario, — la crisi di quei costumi e di quelle istituzioni della cui genesi Tocqueville fu un così acuto osservatore, non c’è dubbio che il suo modo di considerare il problema ci appaia sovente, come si dice, di sorprendente attualità.

Spirito profetico
I fraintendimenti si riferiscono non a quei criteri di lettura, assai diffusi, ahimè, per lo meno sulle colonne dei giornali, con i quali si vorrebbe accreditare il liberalismo di Tocqueville come antesignano delle più recenti manifestazioni della «nuova destra» italiana ed europea.
In realtà il liberalismo di Tocqueville, — inteso anche, se si vuole, come culto di certi valori ancestrali che al tempo stesso precedono e determinano la politica e la storia — è come uno sguardo aperto sul mondo, un’enorme curiosità di esperienze, il rifiuto di qualsiasi limite dogmatico, una disponibilità autentica a cogliere il «vero» e il «nuovo» ovunque si trovino.
Mi tornano in mente le parole fervide e appassionate con cui, concludendo la Democrazia in America, egli delinea con spirito quasi profetico i tratti di una società democratica dell’avvenire, in cui l’inevitabile «compressione» delle individualità sarebbe stata compensata dall’allargamento del benessere e dalla migliore tutela dei diritti per tutti : «E’ naturale credere che ciò che più soddisfa gli sguardi di questo creatore e conservatore degli uomini (Dio) non sia la prosperità singola di qualcuno, ma il maggior benessere di tutti; ciò che mi ferisce è piacevole per Lui. L'eguaglianza è meno elevata, ma è più giusta, e la sua giustizia la rende grande e bella (...) Vi sono certi vizi e certe virtù che erano inerenti alla costituzione stessa delle nazioni aristocratiche, i quali sono talmente contrari allo spirito dei popoli nuovi che non sarebbe possibile introdurli nel loro seno. Vi sono inclinazioni e cattivi istinti, estranei ai primi e naturali ai secondi; idee che si presentano spontaneamente all’immaginazione degli uni e che sono respinte dallo spirito degli altri (...). Bisogna, dunque, guardarsi bene dal giudicare le società che nascono con idee attente a quelle che non sono più».
La lungimiranza di questa prosa, il suo elevato livello intellettuale, il suo indiscutibile pathos morale ci persuadono una volta di più della differenza insormontabile che passa tra un conservatore aristocratico e un bottegaio conservatore: il liberalismo di cui oggi si ciancia è prodotto tutto dalle viscere alte e basse di un ceppo di bottegai conservatori; la specie dei conservatori aristocratici si è invece pressoché estinta e la sua rada sopravvivenza è uno dei tanti motivi che ci rendono questo mondo non tanto ostile quanto intollerabile.
Questa e altre riflessioni mi sono state suggerite, o risollecitate, dalla lettura di un denso volume di Scritti, note e discorsi politici (1839-1852) di Alexis de Tocqueville testé apparso a cura di Umberto Coldagelli per le edizioni Bollati Boringhieri (pp. 572, £ 100,000). Qualche parola di lode va detta innanzi tutto all’editore, non nuovo del resto a operazioni di alta qualità: offrire al lettore in questo momento una scelta sapientemente organizzata della produzione specificamente politica di Tocqueville non significa tanto colmare una lacuna, significa, come ho già cercato di dire, fornire, con quella tempestività che, editorialmente parlando, è sinonimo d’intelligenza, i materiali indispensabili per aprire una discussione seria sull’argomento.

Categorie a rischio
Quanto al curatore, tutti sanno che da alcuni anni Umberto Coldagelli lavora a trasferire dalla Francia all’Italia l’ermeneutica tocquevilliana, in una prospettiva, tuttavia, che a me appare assolutamente originale anche rispetto agli esemplari francesi (ricorderò soltanto la precedente pubblicazione dei taccuini e dei diari del Viaggio in America. 1831-1832 , apparso nel 1990 presso Feltrinelli). Questa volta, però, l’operazione di Coldagelli si configura ancora di più, anche al di là dell’interesse storiografico che la caratterizza, come un’indagine sulle categorie fondative del pensiero politico tocquevilliano, che appare come una vera e propria proposta di rilettura complessiva dell’autore.
Intanto, la distribuzione della materia, distinta per capitoli tematici, ognuno dei quali prefato dal curatore, riorganizzando gli scritti sparsi nei vari volumi delle Oeuvres complètes di Alexis de Tocqueville, ancora in corso di pubblicazione presso l’editore Gallimard di Parigi, ne consente una lettura piana ed efficace, e al tempo stesso attenta a cogliere i fulcri essenziali di quel pensiero.
L’introduzione, poi, ampia e articolatissima — un vero e proprio libro, in realtà, sulle attività e sul pensiero politici di Tocqueville, — costituisce un tentativo quanto mai riuscito di studiare come il pensatore e il teorico cerchi di trasformarsi in politico militante in un periodo decisivo per la storia di Francia e di Europa come quello che va dall’instaurazione del regime orléanista al crollo delle istituzioni liberali e all’ascesa al potere di Napoleone il piccolo. E’ il medesimo periodo su cui pure intensamente rifletterà un certo Karl Marx, da giovane, — analogie ma anche diversità enormi di percorsi, come Coldagelli puntualmente segnala nel suo scritto.
Ora, come si suol dire, non si può in nessun modo costringere alla misura di una recensione la ricchezza di spunti, riflessioni, suggerimenti, che la raccolta di scritti di Tocqueville e di rincalzo l’introduzione di Coldagelli ci presentano. Neanche si può ridurre questa lettura all'adesione commossa e partecipe — e un po’ troppo personalizzata, temo — all’ultimo scritto presente nella raccolta, e cioè il discorso pronunciato da Tocqueville il 3 aprile 1852 nella sua qualità di Presidente dell’Accademia di scienze morali e politiche, nel quale, a mo’ di epigrafe di quel periodo fervido e appassionato ma particolarmente sfortunato della sua attività politica militante, confessava amaramente che «la scienza politica e l’arte di governare sono due cose ben distinte» e che è molto, molto difficile che coloro i quali, attraverso l’esercizio della lettura e del pensiero hanno acquisito «il gusto del fine, del delicato, dell’ingegnoso, dell’originale», possano governare un mondo «asservito a grossolani luoghi comuni».

Il Leviatano democratico
Il filo, — niente di più di un filo, — che io suggerirei di seguire nella lettura di questi testi — sia quelli tocquevilliani sia l’introduzione di Coldagelli — consiste dunque nell’osservare lo sforzo compiuto dal «liberale» e «conservatore» Tocqueville per riuscire sul piano politico a tener testa contemporaneamente al drago della reazione legittimista e a quel «Leviatano democratico... (il quale) sorge dalla stessa affermazione conflittuale dell’uguaglianza attraverso la storia» (Coldagelli, p. XVII). Non tanto perché questa sia la situazione con cui noi abbiamo a che fare in questo momento della nostra storia; quanto perché (a mio giudizio) Tocqueville disegna nel suo operare politico l’inizio di un percorso di cui noi conosciamo la fine.
Tocqueville, infatti — e questo Coldagelli lo dice benissimo — è ossessionato dall’idea di riuscire a trovare strumenti non eccezionali di controllo di un fenomeno — che egli tuttavia giudica nella sua essenza inevitabile e inarrestabile — vale a dire la crescente diffusione nella società e nella politica di quel basilare carattere della democrazia, che è l’uguaglianza. Oggi a me pare che le democrazie occidentali, raggiunto il massimo di uguaglianza concepibile da questo sistema, stiano cambiando il motore, rimettendovi quello basilare dell’ancien regime, che era la disuguaglianza. Solo che, nel frattempo, la storia è scorsa, la democrazia c’è stata, e noi corriamo il rischio di avere il peggio di ambedue i regimi, e cioè, come accennato, un’aristocrazia bottegaia.
Ecco perché il problema della libertà posto con tanta insistenza da Tocqueville torna ad essere nella sostanza così attuale: non perché serva da correttivo, come la destra oggi sostiene, al grande ciclo dei sistemi ideologici e totalitari che è chiuso; quanto perché può contribuire ad arginare le pulsioni alla disuguaglianza, da cui siamo tutti circondati. Può apparire, rispetto al percorso effettivamente compiuto da Tocqueville, uno scherzo della storia — e del pensiero: ma è così.

“il manifesto”, 11 aprile 1995


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