23.8.15

Costantino e gli autonomi (Lidia Storoni)

La testa bronzea dell'imperatore Costantino ai Musei Capitolini
Il grande successo commerciale delle biografie (più o meno rigorose e documentate), rappresenta uno dei divarii più cospicui fra la Cultura con la C maiuscola e le scelte dei mass media. Alcune «Vite» sono in effetti compilazioni affrettate, basate su dati — spesso notoriamente confutati — desunti da testi scolastici, senza consultazione di archivi, controllo di documenti o verifica della tendenziosità delle fonti. Il personaggio che ne emerge è oggetto di curiosità per gli aneddoti della sua esistenza, non perché rappresenti una classe o una corrente culturale e politica; né perché sia stato, poniamo, il promotore o il mediatore duna crisi. Non sfuggì a Plutarco, il biografo per eccellenza, la differenza fra biografia e storia: «io non faccio storia», precisò; «scrivo delle Vite». Era consapevole che la storia riguarda la «longue durée» d’una nazione, mentre la biografia si limita alle vicende d’un individuo.
Nella storiografia attuale, l’uomo non è più né soggetto né protagonista. Cominciò l'evoluzionismo a vederlo comportarsi come si addice a una creatura pervenuta a un dato stadio del suo sviluppo biologico; la psicoanalisi lo ritiene condizionato da stimoli sepolti nel subconscio; l’antropologia e lo strutturalismo s’interessano dei comportamenti collettivi; il materialismo storico addita nelle ragioni economiche i moventi del divenire; la sociologia e la scuola delle «Annales» indagano su indizi inavvertiti, su documenti indiretti, per mettere in luce la mentalità, il costume della cosiddetta «maggioranza silenziosa».
Oggi, dunque, è quasi riposante leggere qualche biografìa di vecchio stampo, nella quale campeggia la figura umana, una biografia in cui l’autore segue il protagonista passo passo dall'infanzia, lo ambienta nel suo tempo, lo studia con diligenza anche se volentieri lo giustifica nei suoi errori. Il racconto, comunque, stimola l’interesse per l’operato d’un individuo, più che suscitare vasti interrogativi politici e morali.
È il caso dell’ultimo volume d’ uno studioso tedesco di cui conoscevamo già un Giulio Cesare, E-berhard Horst: Costantino il Grande (traduzione di Umberto Gandini, Rusconi). L'imperatore Costantino è noto soprattutto per il famoso compromesso storico del 313, l’Editto di Milano, con il quale concesse libertà di culto ai cristiani; dopo quell’avvenimento clamoroso, la Chiesa diventò sua stretta collaboratrice, volenterosamente riconobbe nell'impero uno strumento della Provvidenza e cominciò ad accumulare privilegi.

Privazioni forsennate
Ancora dolorante per le recenti persecuzioni, la Chiesa dei primi due secoli si gloriava dei propri martiri, moltiplicava le sue cellule, attirava gli umili con parole di giustizia, le classi colte con il monoteismo e con l’etica severa, le coscienze smarrite per la crisi dei valori con la sua dottrina suggestiva e rassicurante. Come osservava acutamente Arnaldo Momigliano, la sua maggior forza d’attrazione fu la solidarietà umana aperta a individui smarriti inuno Stato troppo vasto – sofferenti si direbbe oggi di alienazione – e il senso di appartenere a una comunità nella quale trovare speranza nella vita futura e assistenza nei bisogni materiali di questa terra.
A prescindere dal rapporto numerico fra le due forze, è in genere la più antica e autorevole ad assimilare quella nuova, fino a quel momento emarginata. Questa, a sua volta, attenua la sua spinta eversiva e lentamente si snatura; il tempo opera immancabilmente un assor-bimento reciproco, promosso non da affinità ideali ma quasi da una necessità di assimilazione.
Il compromesso tra Stato e Chiesa, che pure segno la fine delle persecuzioni —particolarmente terribili le più recenti — non mancò di suscitare reazioni contrarie. Una di queste fu il monachesimo. Ebbri di Dio, gli anacoreti si rifugiarono nei deserti o nelle isole più inospitali, si incatenarono alle rocce, si sottoposero a privazioni forsennate per provare che la dedizione a Dio deve essere totale. In contrasto con la Chiesa, sempre più condiscendente (il Concilio di Elvira-Granada, decretò la scomunica a chi gettava le armi per obiezione di coscienza, cosa che i Padri della Chiesa seguitarono a predicare per tutto il secolo), gli asceti negarono ogni diritto alla propria sostanza corporea: scarmigliati, scheletrici, quegli «autonomi» della fede contestarono insieme Chiesa e Governo, contrapponendo le nude spelonche alle chiese che si andavano ricoprendo di marmi e di mosaici.
I vescovi intanto conquistavano privilegi. Già nel 319 l’imperatore esentò gli addetti al culto dalle prestazioni obbligatorie: l'amministrazione dei comuni — funzione gravosissima e ereditaria—la manutenzione delle opere pubbliche; poi li esonerò dal servizio dei templi, poi da quello militare. I vescovi furono inoltre abilitati a giudicare nei Tribunali ecclesiastici e le loro sentenze non prevedevano appello; presenziavano in chiesa alla «manumissio», la liberazione dello schiavo. I preti ottennero sgravi fiscali.
Un altro aspetto del rifiuto fu dottrinario: le eresie. Dietro al dissenso teoretico, esse celavano la resistenza di menti avvezze al pensiero greco e incapaci di accettare il «credo quia absurdum»; nascondevano soprattutto antiche animosità etniche e sociali. Costantino, che aveva sperato di raggiungere quell’unità religiosa da lui ritenuta premessa indispensabile all'unanimità dei consensi, si trovò coinvolto nel dissidio tra ariani — negatori della sostanza divina di Gesù pari a quella di Dio — e ortodossi. La sua aspirazione a un dominio totale lo poneva nella posizione di arbitro supremo; eppure, consultato dai contendenti, confessò di non essere in grado di giudicare, essendo lui stesso bisognoso di lumi: il suo cristianesimo era infatti un deismo intriso di platonismo e ancora memore del culto del Sole. Fondò una monarchia teocratica, mentre i sudditi sopportavano una situazione economica disastrosa, salari da fame, una grave svalutazione monetaria, e si creò un'aureola da ispirato.
Già nel 310, nelle Gallie — come racconta uno dei suoi panegiristi —aveva avuto la visione radiosa di Apollo. Poi ebbe il sogno della croce fiammeggiante con la scritta famosa: In hoc signo vinces («in questo segno vincerai») e vinse la battaglia di Ponte Milvio, nella quale si liberò dell ultimo dei suoi competitori al trono, tutti sterminati (e tutti suoi parenti stretti). Nell'Arco di Trionfo — che apparteneva a Traiano, come è evidente dai medaglioni e dai superbi Daci che lo sormontano — la dedica parla del giovane imperatore che avrebbe sgominato il «tiranno», titolo immancabile del sovrano ritenuto illegittimo, per ispirazione della divinità: Instinctu divinitatis — ma non si precisa quale fosse.
L'immagine di Costantino I nei mosaici
della Basilica di Santa Sofia a Instambul
I sette colli di Bisanzio
La testa, la mano marmoree conservate nel cortile del Museo capitolino riflettono la sua aspirazione a un dominio addirittura cosmico: un uomo che vuol essere rappresentato in dimensioni così macroscopiche nutriva certo ambizioni smisurate.
La costruzione della seconda capitale, la nuova Roma, sul Bosforo, fu una pugnalata per i conservatori romani. Si era temuto che Cesare volesse riedificare Troia, che Antonio trasferisse la capitale in Egitto e Tito, per amore di Berenice, a Gerusalemme — non per nulla Livio fa dire da Camillo a quelli che volevano trasferire la capitale a Veio la frase famosa: «Qui resteremo ottimamente» (hic manebimus optime) e Virgilio rassicurò i romani: Troia non sarà mai ricostruita. Costantino, quasi guidato da una voce soprannaturale; tracciò con la lancia il perimetro della città, che comprendeva, come Roma, sette colli; vedeva se stesso come l’immagine di Dio in terra, il simbolo del potere cosmico e tutti i suoi atti dovevano essere impregnati di sacralità. La città — Bisanzio — si trovava in una posizione privilegiata per bellezza e per i traffici marittimi; nell’ippodromo, già costruito da Settimio Severo, depose i trofei d’una doppia tradizione cristiana e romana: il Palladio, la pietra nera (il meteorite che rappresentava la Madre degli dèi) il paniere della moltiplicazione dei pani e dei pesci: il che significava trasferire a Costantinopoli le fortune di Roma. Sua madre, intanto, ritrovava in Palestina i frammenti della croce.
L'imperatore ha deposto la lorica del legionario e la toga del magistrato; è ispirato da Dio. Immobile come un'icona, si esibisce al centro di un abside ai sudditi ammessi alla genuflessione, tra i fumi dell'incenso; la sala del trono si trasforma in basilica, il cerimoniale della Corte passa al vescovo di Roma, i perseguitati diventano persecutori. Lo scambio dei connotati è compiuto.


“la Repubblica”, 18 dicembre 1987

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