23.8.15

E la Vestale gridò... Miti e credenze di Roma antica (Lidia Storoni)

Vestali - Roma, Museo della civiltà romana
Chi va in giro per Roma calpesta un suolo dove su ogni metro quadrato sorgeva un abitato, un edificio sacro o amministrativo, un mercato, una palestra, un carcere, un tribunale. Da questa terra, a saperli percepire, affiorano echi indistinti di credenze, di miti, di leggende.
Sulla terrazza del Gianicolo si narra che Giano, padre del Tevere, avesse fondato una città fortificata. Il nome di questo remotissimo progenitore, un altro che fa concorrenza a Romolo oltre a Enea, evoca un duplice significato, quello di Dies, il vedico Diauh, il Sole al suo apparire, a cui corrisponde Diana, la Luna; e quello di janua, la porta, janus, l'arco (il vano). Come tale, a Giano era sacro il mese che apre l'anno, januarius, il gennaio. Vigilava sui passaggi; ma dato che tutte le porte servono per entrare e per uscire, Giano era detto Gemino o Bifronte o anche, poiché i punti cardinali sono quattro, quadrifronte. Il suo tempio era aperto in tempo di guerra, per consentire al dio di accorrere in aiuto dei combattenti romani in caso di pericolo; si chiudeva solo in tempo di pace. La porta del tempio infatti è chiusa sulle monete di Augusto, il quale fra le sue benemerenze vantava quella d' aver procurato a Roma un lungo periodo di pace.
Altre zone della città portano il nome di divinità che furono sconsacrate dalla Chiesa ma che sono rimaste confusamente presenti nella memoria o nella superstizione popolare. Il Campo Marzio, in quanto area destinata alle esercitazioni militari, ricorda l'aspetto più noto del dio Marte, quello di patrono dei combattenti; ma prima della guerra, alla quale si riferiscono le cerimonie che si celebravano in suo onore (e riguardavano i cavalli, le trombe, le lance e gli scudi), Marte era il dio dei campi e della fecondità. Il mese a lui sacro marzo era la stagione in cui avevano inizio sia i lavori agricoli sia le operazioni belliche. La seconda delle tre figure divine nelle quali, secondo Georges Dumézil, si riflettono le tre funzioni fondamentali della società guerra, agricoltura e giustizia è quella di Quirino. Il suo tempio, fondato nel 293 a.C., sorgeva sul colle che ne porta il nome, il Quirinale. Quel dio rappresentava la popolazione civile produttiva agricola e artigianale, i Quiriti, mentre il governo, autoritario, garante dell'ordine e della legge, si riflette nella figura di Giove, Jupiter (Diuspater), luminosa divinità del cielo. Da lui dipendono le stagioni e le folgori, le stelle e la pioggia: egli impone il rispetto della parola data ed è al di sopra di tutti gli altri dèi; i vari aggettivi che accompagnano il suo nome ricordano i numerosi episodi della sua attività benefica e la molteplicità delle sue mansioni.
Dal nome di Venere, dea di origini oscure, patrona dell'amore e della fecondità, derivano termini contraddittori come venia (indulgenza, grazia) e venerari (mostrare venerazione) ma anche venenum, il veleno: e ancora non si conosceva l'Aids. A questa immagine erotica si contrappone la vergine Vesta austeramente velata, custode del fuoco che ardeva perenne nel focolare della comunità ed era il simbolo dell'eternità di Roma. Alle Vestali, scelte a sette anni da famiglie patrizie, era d'obbligo la castità fino a quarant'anni, la vigilanza sul fuoco, la preparazione della mola salsa, un impasto di farro e di sale che si cospargeva sulla testa delle vittime condotte al sacrificio (donde il termine immolare).
Le Vestali in origine erano due, poi tre, poi salirono a sette; adempivano a vari doveri civici, vegliavano sul Palladio, pregavano per la salute pubblica, custodivano testamenti e documenti importanti. La loro funzione di difesa della stabilità di Roma era valida fino a che non venivano meno al voto di castità; se questo «sconcio» si verificava, risultava contaminata l’immagine ideale di donna ligia al dovere che la Vestale rappresentava, e la colpevole di «incestum» era punita con la morte. Ma poiché non si può toccare una vergine col ferro la sventurata veniva condotta in lettiga chiusa nel campus sceleratum dove era sepolta viva; le si lasciava pane e acqua per sopravvivere ventiquattro ore; il seduttore veniva giustiziato a nerbate.
Condanne simili furono emesse per lo più in momenti di isterismo religioso e di grave turbamento psichico per la paura di nemici incombenti, come durante la III guerra punica o quella di Giugurta, la calata dei Cimbri e Teutoni. Il caso si ripetè ancora sotto Domiziano nel I secolo e forse per l’ultima volta nel III, sotto Caracalla. Tutta la comunità si sente violata nella vergine: le pene inflitte dalla Chiesa alle monache sedotte e ai loro amanti furono altrettanto efferate.
Dèi ed esseri umani la cui storia sconfina nella leggenda — gli eroi di Livio e di Virgilio — sono presentati in brevi e ingenue sceneggiate in un volume a intento esplicitamente divulgativo di Rosa Agizza, Miti e leggende nell’antica Roma (Newton Compton). I personaggi sono presentati come attori sulla scena e recitano le loro vicende in modo vivace, ma, ahimè, in pessimo italiano: la piccola Emilia è eletta Vestale, ma la fierezza dei suoi per l’onore di quella scelta «tanto stridore faceva con la sua ingenua pena». Nel ricordare, anni dopo, la condanna a morte d’una compagna, la stessa Emilia rabbrividiva «al rimbombante ricordo delle sue grida». Mercurio, dio delle merci, accompagna negli Inferi le ombre; affascinato da una fanciulla che Giove gli ha affidato, ne ammira «la delicatezza dei magnifici lineamenti impreziositi da ieratica rassegnazione». La dea Feronia era «d'una bellezza straordinaria la cui dimensione superlativa non veniva ridimensionata dalla benché minima ombra di corruzione interiore» (vale a dire, non usava trucco). «Esculapio rivela essere l'esempio eclatante dell’affermazione a Roma della moda greca». E altre gemme come queste.
A prescindere dall’uso sorprendente della lingua, l’autrice ha raccolto notizie utili anche per il grosso pubblico. Da questo libro si desume infatti che quelle figure arcaiche sono presenti anche in chi non le conosce; d’un farmaco miracoloso si dice che è «una panacea», ma pochi sanno che questo era il nome della figlia di Esculapio; non c’è chi non usi espressioni come aspetto marziale, forza erculea, bellezza giunonica, calma olimpica, sostanza afrodisiaca, Giove Pluvio e così via: sono vene d’acqua viva, scaturite dalle falde della cultura classica, infiltrate nelle coscienze; sono schegge del mondo antico inserite nella compagine del nostro.


“la Repubblica”, 28 marzo 1987 

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