18.8.15

Doppia Altezza. Federico II di Prussia e Voltaire (Gianfranco Manfredi)

Due libri per un re: dal primo, «l’antiprincipe», Federico II, che ne fu autore, esce male, fra l'ovvio e lo stupido. Ma quando lo ritrae Voltaire, che pure lo chiama “puttana”, che fascino in quelle contraddizioni!
Voltaire e Federico II di Prussia in una stampa d'epoca 
«Mi chiedo che cosa possa indurre un uomo a cercare di accrescere la sua potenza a spese della miseria e della morte di altri uomini». Parola di principe, anzi di antiprincipe. In questa veste si presentava al mondo Federico II, erede al trono di Prussia, amico di filosofi, letterati, poeti, egli stesso amante della musica e dei versi, sovrano antitirannico per eccellenza, almeno nelle intenzioni.
Un anno prima di venire incoronato (siamo nel 1739), il ventisettenne Federico compone il suo manifesto: L'antimachiavelli, sdegnato commentario del Principe, buon proposito di rieducazione morale e filosofica dei governanti alla scuola della tolleranza. Voltaire se ne entusiasma e si dà da fare per pubblicarlo, ma nel frattempo Federico, elevato al trono, aveva già dichiarato guerra all’Austria e invaso la Slesia.
Lo stesso uomo che si era chiesto: «Come si può presumere di acquistare fama rendendo infelici gli altri?» ora si risponde con disarmante sincerità: «L’ambizione, l’interesse e il desiderio di far parlare di me vinsero ogni esitazione, e la guerra fu decisa». L’antiprincipe che invitava a non incrudelire, ora incita così i suoi uomini: «Attaccate, attaccate, attaccate sempre!». A dieci passi dal nemico «sparagli una gran salva nel naso e ficcagli immediatamente la baionetta nelle costole!».
Chi era dunque Federico II? Un ipocrita, un pericoloso mentitore secondo molti contemporanei non necessariamente nemici, «un accorto dissimulatore» secondo Thomas Mann che in pieno 1914 gli dedica un saggio (Federico e la grande coalizione) e si spinge fino a proiettare la sua ombra sulla nascita della Grande Germania. Cita: «Se potessi supporre che la mia camicia o la mia pelle hanno sentore delle mie intenzioni, le strapperei». Imprevedibile per calcolo dunque, non per ipocrisia. In un certo senso «un machiavellico»! Come in quest’altra massima, sempre ricordata da Thomas Mann: «Il mondo giudica la nostra condotta non dai motivi, ma dal successo. Cosa ci resta da fare: aver successo».
Le Edizioni Studio Tesi, dopo aver pubblicato l’anno scorso il saggio di Mann, mandano ora alle stampe L’antimachiavelli e una Vita di Federico II di Voltaire. La figura del sovrano, restituita al suo tempo e alla sua inattualità, si manifesta ancora più esemplare e rivelatrice.
La sua celebrata operina è solo un compendio di considerazioni ovvie, citazioni sregolate e sovrane stupidità (come questa: «Machiavelli scriveva solo per piccoli principi e devo dire che trovo in lui solo piccole idee»).
Il vero talento di Federico II traspare nelle considerazioni di ordine finanziario e militare, per il resto si tratta di autopropaganda nella quale l’atteggiamento anticonformista e irreligioso viene temperato e annacquato nel moralismo più insistito, e le riflessioni sui limiti dell’operare umano sono usate come piedistallo per l’esibizione della propria grandezza.
Scopriamo insomma in Federico II il modello dell'autocrate riformatore che promette ai sudditi quella libertà di cui intende personalmente usufruire in modo assoluto, il primo esempio «moderno» di politico illuminato eppure adoratore della «potenza», di antidespota che nell’esercizio capriccioso e ferreo del suo potere trova la sola forma di governo possibile, stabile e duraturo. Questo è il «modello Federico II», dentro e oltre la Grande Germania, incarnatosi in innumerevoli figure
di rivoluzionari e di ultra-conservatori, metafora dell’inganno e del disincanto come centro del far politica, o meglio dell’esercizio del potere.
Come ne parla l’intellettuale Voltaire? Ne è deluso, certo. In una sua poesia del 1741 scrive: «Ho visto fuggire i buoni propositi al primo squillo di tromba. Essi non sono altro che re, si avviano a imprese cruente, conquistano e devastano. L’ambizione li ha soggiogati». Parla di un amico perduto, dice addio a un principe che non sa essere altro che principe. Disprezza coloro che gli restano vicini per adularlo, intellettuali servili e ridicoli.
Eppure nella Vita di Federico II, l'atteggiamento è diverso. Voltaire non scrive un pamphlet, non fa un’agiografia, neppure si diffonde nell'autodifesa: non pretende certo che il lettore lo creda un Candide! Voltaire si abbandona al piacere del racconto, al gusto dell’intrigo e del contrappunto filosofico, in un resoconto storico e privato ora circospetto, ora sornione, sempre spudorato e trascinatore nei giudizi. Dunque: «visto da vicino», chi era Federico II? Ecco la prima definizione: «Amava invece dei grandi i begli uomini».
Impariamo a conoscere la storia di un figlio di re «pieno di spirito, di grazia, di garbo e di eleganza», oppresso da un padre tirannico che tentò più volte di ucciderlo perché non gli succedesse, costretto ad assistere alla spietata esecuzione del suo amico del cuore, minacciato egli stesso di decapitazione...
L’amore per la letteratura, gli scambi epistolari tra il giovane principe e Voltaire nascono così, a parte dalla politica, in odio al padre. Poi, con il raggiunto potere, sopravvivono come schizofrenia.
«Singolare modo di governare» racconta Voltaire «unito a costumi più strani ancora; contrasto di severità nella disciplina militare e di mollezza all'interno della reggia; di paggi coi quali era lecito divertirsi nell'intimità delle camere da letto, e di soldati che erano puniti con trentasei colpi di bastone sotto le finestre del sovrano che li stava a guardare; di discorsi morali smentiti da una licenza sfrenata...».
Ma questa doppiezza seduce. Chi è Federico II se non «una degna, straordinaria, amabilissima puttana»? (Questo scriverà Voltaire a Maupertuis, che non perderà l'occasione per recapitare immediatamente il biglietto al re). Ma Voltaire non intende affatto essere malevolo. «La testa cominciava a girarmi...» confessa. E quando il re dimentica per un momento i bellissimi favoriti che lo circondano e prende la mano del filosofo per baciarla, vinto da tanta «singolare tenerezza» Voltaire si arrende: «Io gli baciai la sua e mi ridussi suo schiavo».
Qualche avversario ha inteso rimproverare Voltaire per la sua cortigianeria? Il filosofo risponde narrandosi con totale franchezza e altrettanta ironia. Le sue avventure alla corte di Federico, un po’ come amico e confidente, un po’ come maestro di poesia, ora come consulente politico ora come spia, sono sì l'autoritratto di un uomo molto compromesso, ma mai di un burattino. Persino quando Voltaire si presta a lavorare come agente segreto al servizio di sua maestà il re di Francia, non dimentica mai le ragioni del proprio divertimento e benessere.
La sua vita accanto a Federico II trascorre tra scambi epistolari e «versi più brutti che belli», futilità, disillusioni e mille vicendevoli trappole spionistiche: Federico II gli fissa un appuntamento a Wesel? È pura copertura. Ci va non tanto per incontrare un amico, quanto « in vista di una certa occasione che si sarebbe potuta presentare»: l’aggressione militare al vescovo-principe di Liegi.
Voltaire si reca alla corte di Federico? Non è per l'irresistibile impulso a rivederlo, ma per carpirne le intenzioni politiche e, appena soddisfatto, si precipita ad andarsene.
La doppiezza inevitabile dell'intellettuale, contro la doppiezza forse altrettanto inevitabile del Potere. Contro, ma più spesso a fianco. È questo il nodo filosofico? Ce n'è un altro e più profondo.
Scrive ancora Voltaire di Federico: «Nessun uomo ha mai sentito più di lui la necessità della ragione, pur obbedendo viceversa soltanto alle proprie passioni». Ecco il tema centrale: non la delusione verso il riformatore incompiuto, non la rivendicazione della superiorità dell’intellettuale, qualcosa di più: l’esplorazione, la documentazione minuta e divertita dell’influenza delle «passioni», anche infime, su grandi avvenimenti storici.
E un gran balletto di dame, baffoni, spie, vescovi, uomini di lettere e di nessun genio, e alla danza possono benissimo mischiarsi, quasi inattesi, l'affetto, l’amicizia, la cultura, ma sotto il mestolo di una ragione politica che poco ha di razionale, che è sempre inadeguata alle grandi strategie e ai grandi progetti.
Su questo punto, anche il suo avversario Rousseau è d’accordo: ci sono «molle primitive, sempre nascoste, spesso assolutamente frivole» dietro i massimi eventi. Non basta essere uomini di lettere, né primi ministri per scriver di Storia. E sicuramente più credibile «un favorito rimasto a lungo in carica e ritiratosi dalla corte, che occupi il suo ozio a descrivere ciò che ha visto e i problemi del suo tempo».
Chissà che sotto le spoglie di questo favorito di cui parla Rousseau, non si celi proprio François Marie Arouet de Voltaire, amico e biografo di Federico II.

PANORAMA - 6 DICEMBRE 1987

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