18.8.15

Riproduzioni forzate. Nascite e politica dal fascismo a oggi (Francesco Cassata)

I premi di natalità distribuiti in occasione del Natale di Roma, il 21 aprile 1933.
Nella foto una delle famiglie premiate,
il signor Filippo D’Ortensio con la moglie e i loro dieci figli.
(Milano, Archivio Farabola)


























Dopo gli importanti lavori di Cari Ipsen e di Marie-Sophie Quine, questo saggio (Anna Treves, Le nascite e la politica nell'Italia del Novecento, Led, Milano 2002) riconduce nel dibattito storiografico, attraverso una prospettiva che muove dagli anni venti per arrivare fino alle più recenti cronache giornalistiche, un tema ancora ricco di spunti poco indagati.
In realtà, fulcro centrale della ricerca è il nesso fra demografia e fascismo, affrontato prima nella sua realtà politico-ideologica, e poi in quanto produttore di memoria negli anni dell’Italia repubblicana. Per quel che riguarda il periodo compreso fra le due guerre mondiali, Treves adotta due punti di vista. Il primo inserisce il natalismo fascista nell’ambito, del panorama europeo complessivo, smentendo lo stereotipo secondo cui il natalismo sarebbe stato appannaggio esclusivo dei fascismi. Al contrario, il tentativo statale di influenzare i comportamenti procreativi dei cittadini caratterizzò anche la Francia di Daladier e di Blum, la Germania di Weimar, le socialdemocrazie scandinave, l’Urss staliniana. Tuttavia, pur inserito in un più ampio contesto politico-culturale, il caso fascista mantiene il suo carattere anomalo: perché una campagna demografica in un paese come l’Italia, che presentava problemi di eccesso, e non di mancanza, di popolazione? L’autrice tenta di spiegare tale “diversità nella somiglianza” attraverso un’interessante decostruzione dell’impianto ideologico-concettuale del noto Discorso dell’Ascensione (1927). Nell’ipotesi natalista mussoliniana viene infatti colto un nodo cruciale per l’elaborazione, da un lato, della politica di potenza, e, dall’altro, della filosofìa antimodernista fascista.
Ad approfondire tali aspetti è la seconda prospettiva analitica scelta da Treves: lo studio dei rapporti fra i demografi e il regime. Se da un lato la demografia in quanto disciplina autonoma nasce come “scienza di regime”, dall’altro i demografi sono gli “aedi” piuttosto che i “tecnici” delle scelte politiche. Con due eccezioni importanti: la svolta familista della campagna demografica, nel 1937, e l’avvio della campagna razzista, nel 1938.
La contaminazione razzista della demografia italiana ne determinerà le sorti nel dopoguerra, in un caso emblematico di continuità dello stato. Il tema della quantità delle nascite viene infatti rimosso: nell’Italia democristiana, le leggi contro l’aborto e gli anticoncezionali, ancora in vigore, sono leggi “cattoliche”, a difesa della moralità. Nell’Italia del Sessantotto, l’argomento delle nascite ritorna, ma con il linguaggio della battaglia per i diritti civili e individuali e con la scoperta della sovrappopolazione del Terzo Mondo. Solo una copertura di “sinistra” consente la rentrée del natalismo: al congresso di Bucarest, del 1974, i demografi italiani si schierano, infatti, contro la pretesa “imperialista” americana di contenere la crescita demografica dei paesi del Sud del mondo. La svolta si compie negli anni ottanta, con il passaggio dal natalismo “terzomondista” alla denuncia della denatalità italiana come “male”.
Il cerchio si chiude, dunque, con preoccupanti elementi di continuità nella differenza: il natalismo attuale, spesso giustificato come una forma di difesa dell’identità nazionale ed etnica, è forse così lontano da quello degli anni venti?


“L'Indice”, dicembre 2002

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