24.8.15

Il salone di don Nonò (Andrea Camilleri)

Don Nonò era il barbiere della nostra famiglia, nel senso che tutti i miei familiari maschi (nonno, gli zii, mio padre) si facevano servire nel suo salone che si trovava situato in una delle due strade che portavano a casa nostra. Era perciò comodo, quando ce nera bisogno, rincasando, fermarsi dieci minuti nel salone per farsi dare una spuntatina ai capelli. I miei amici, una volta giunti attorno ai sedici anni, mettevano i pantaloni lunghi e ogni mattina ansiosamente si controllavano allo specchio per vedere se nottetempo era capitato il miracolo della barba. E con quanto orgoglio i più precoci potevano finalmente proclamare ai compagni invidiosi: «La varba mi spuntò! Dal varberi andai!».
Io no, io dirazzavo. Ho sempre, nella mia vita, cercato di evitare i saloni dei barbieri. Una spiegazione possibile di questa mia idiosincrasia è forse riconducibile a un fatto che mi capitò un giorno che, potevo avere sei anni, mio padre si fece accompagnare da me nel salone di don Nonò. Il salone in verità non meritava l’accrescitivo: era una stanza di poco più di quattro metri dotata di uno sgabuzzino posteriore. Dentro ci stavano tre poltrone da barbiere, sei sedie per i clienti in attesa, un portaombrelli, un attaccapanni, due sputacchiere. Quel giorno arrivò trafelato uno degli aiutanti di don Nonò con una tazza da latte in mano ed entrò nello sgabuzzino. Io lo seguii. E vidi che rovesciava il contenuto della tazza dentro a un pentolino di coccio pieno a metà di sale. Mi accorsi allora che si trattava di quattro orrendi vermi neri, gonfi e grossi. «Che sono?» domandai disgustato. «Sanguette» mi rispose. E subito dopo le sanguisughe cominciarono a vomitare sangue, tingendo di rosso il bianco del sale. M’impressionai talmente che me ne scappai da solo a casa. Allora le sanguette servivano per cavare il sangue a chi ne aveva in eccesso. Si applicavano a una vena e quelle attaccavano a succhiare. Le tenevano i barbieri, residuo di quando i barbieri erano anche cerusici.
Insomma, a 82 anni suonati credo di essere stato da un barbiere non più di una ventina di volte. A tredici anni, avevo i capelli così lunghi che all’adunata del sabato fascista il capomanipolo mi ordinò di ripresentarmi il sabato seguente coi capelli tagliati. E ne informò mio padre, il quale disse a don Nonò che appena mi vedeva passare doveva farmi bloccare da un suo aiutante, vincere le mie resistenze, portarmi nel salone e quindi procedere al taglio forzato. Ma io subodorai l’agguato e per i primi quattro giorni mi guardai bene dal passare da quella strada, facevo l’altra. Sennonché il quinto giorno, giovedì, trovai la strada di fuga sbarrata per lavori. E quindi dovetti passare dalle forche caudine. L’aiutante di don Nonò mi vide e cercò d’agguantarmi, io riuscii a sfuggirgli, intervenne il secondo aiutante, poi qualche passante. Insomma, alla fine di questa scena degna della feria di Pamplona, fui catturato e ridotto quasi alla calvizie.
Don Nonò, come tutti i barbieri, ogni anno distribuiva in regalo un calendarietto ai clienti. Erano piccoli, da portarsi nel taschino, infilati dentro a una bustina di carta speciale. Dotati di un profumo dolciastro particolare, credo unico al mondo, erano illustrati a colori vivaci. Durante gli anni del regime, ne esistevano di due tipi: uno, come dire, ufficiale, che esaltava le eroiche imprese del fascismo, e un altro, più clandestino, nel quale erano raffigurate carnose, rubensiane femmine discinte. Per l’epoca, erano molto osé, oggi andrebbero bene in un educandato. Confesso che don Nonò riuscì a tagliarmi i capelli per la seconda volta promettendomi un calendario dove le femmine non erano coperte da trasparenti veli ma completamente nude.
Alla domenica, perché i barbieri lavoravano anche la domenica, il loro giorno di riposo era il lunedì, nel salone di don Nonò c’era il concertino eseguito dal duo Pirrotta-Spitaleri, di grande fama paesana. Pirrotta, al mandolino, era un ferroviere, Spitaleri, falegname, suonava la chitarra. Naturalmente non si esibivano solo nel salone, ma venivano ingaggiati in occasioni speciali quali matrimoni o particolari ricorrenze. Si prestavano anche a serenate notturne (allora usavano) che gli innamorati facevano eseguire sotto le finestre delle loro belle. Certe volte le serenate finivano con la fuga precipitosa del duo, inseguito da qualche padre geloso che non gradiva la gentile attenzione verso la figlia. Pirrotta era anche quello che oggi si chiamerebbe un vocalist, non cantava le parole delle canzoni, ma ne accennava a tratti il motivo, generalmente a bocca chiusa. Il loro repertorio pescava soprattutto nella grande canzone napoletana e frequenti erano i bis. Perché in occasione del concertino il salone si affollava all’inverosimile e il duo era costretto a suonare praticamente schiacciato contro il muro. Io me lo godevo da fuori, appoggiato alla porta, sicuro che don Nonò era troppo impegnato per darmi la caccia. Poi, nel 1942, il fascismo proibì i concertini. La guerra - spiegarono i gerarchi — poteva tollerare solo marce militari e inni patriottici. E il salone di don Nonò s’intristì.


Prologo al libro Musica nei saloni. Suoni e memorie dei barbieri di Sicilia (a cura di G. Pennino e G. M. Piscopo, IPSA, Palermo, 2009), ora in Andrea Camilleri, Come la penso, Chiare lettere, 2013

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