9.8.15

Le massime di La Rochefoucauld (Fausta Garavini)

Riprendo qui la prima parte della recensione a una nuova edizione della celebre raccolta di massime di La Rochefoucauld, scritta da un'eccellente francesista specializzata nella letteratura del 500 e del 600, tra l'altro autrice della migliore (a mio avviso) tra le edizioni italiane dei Saggi di Montaigne. (S.L.L.)
François de La Rochefoucauld
C'è una frase, resa nota in Italia da Giulio Andreotti, che suona: «A pensar male (degli altri) si fa peccato ma ci si azzecca». Secondo alcuni la battuta non sarebbe di Andreotti, che si limiterebbe a citare il cardinal Mazzarino oppure, secondo altri, La Rochefoucauld. In realtà la frase non si trova nel Breviario dei politici attribuito al diabolico cardinale, e neppure nelle Sentenze e massime morali del duca di La Rochefoucauld, ora curate con l'abituale acribia da Carlo Carena (Einaudi, «I Millenni»). Ma potrebbe trovarcisi. Anche un'altra nota massima andreottiana, «Il potere logora chi non ce l'ha», sarebbe accostabile del resto a questa o quella sentenza di La Rochefoucauld (poniamo: «La fortuna non sembra mai così cieca come a coloro che non benefica», 391). Quanto dire la sintonia del nostro presente con lo spirito dell'epoca di Luigi XIV - quel « teatro della dissimulazione» indagato a più riprese da Giovanni Macchia - e, constatazione scontata, la possibilità per noi di riconoscerci nella cancrena cachettica d'una società dove non scorrono più stimolanti flussi vitali.
Al limite, quella frase avrebbero potuto firmarla anche il cardinal de Retz, o Saint-Simon, o La Bruyère, autori compresenti nel pantheon dei «moralisti classici» (si veda, ancora di Macchia, l'antologia dello stesso titolo e, indietro nel tempo, le celebri e fondamentali Morales du grand siècle di Paul Bénichou, 1948) sulla cui soglia vediamo indugiare il nostro fine politico. Ma se tutti costoro lavorano impietosamente sulle contraddizioni dell'animo e dei rapporti umani, soltanto La Rochefoucauld sfaccetta in perfidi, taglienti cristalli, luci e colori del secolo del Re Sole. Un secolo che sarebbe più giusto definire il secolo dell'eclissi, uno dei periodi più oscuri della storia di Francia: l'assolutismo monarchico schiaccia la vita socio-economica (carestie, mortalità, tasse pesantissime, coscrizione) come la vita intellettuale (le élites messe al passo, gusti e coscienze sorvegliati, disciplinati, plagiati). Quel che si eclissa è la morale eroica di Corneille, la morale rigorosa di Pascal; è la fiducia nel genere umano, nella virtù stoica, nelle gesta sfolgoranti, nell'autenticità dei sentimenti, oscurata dalla lucida coscienza che ogni agire è doppiezza, che l'interesse per altrui è copertura del proprio. Si eclissa anche la morale mondana di Molière, che stornando in amara pagliacciata le artritiche contorsioni dei sudditi di Luigi XIV, decreta la qualità di Alceste nel rifiuto di adeguarsi al corrente istrionismo.
Esperto fin da giovanissimo degli intrighi e delle cabale di corte, partecipe dei complotti contro Richelieu e della Fronda, La Rochefoucauld sapeva di cosa parlava esordendo come scrittore a quarant'anni passati, prima con le Memorie relative al periodo della Reggenza, poi - calmati gli spiriti e godendo della vaga protezione del re - con le Massime in cui distilla, nei e per i salotti di Madeleine de Sablé, di Madame de Sévigné, di Madame de La Fayette, i succhi aspri e ironici della sua esperienza del vivere. Niente a che vedere, ovviamente, con i vari manuali di saper vivere che pullulano all'epoca, a partire dal Cortegiano, comune modello, e di cui nella pratica -s tando ai giudizi dei contemporanei - La Rochefoucauld sembra l'incarnazione.
Se alcune sue massime trattano delle convenienze sociali e insegnano le buone creanze, fra il Castiglione e La Rochefoucauld è passato Giansenio, la cui visione negativa dell'uomo ha contagiato gli ambienti parigini. E anche senza Giansenio, lo spettacolo della corruzione circostante non poteva che persuadere della vacuità di qualsiasi ideale. L'opera, consentanea al contesto in cui nasce, viene accolta con favore, anzi con un entusiasmo che indurrà poi l'autore a rilavorarla a più riprese, sfogliando atteggiamenti e sentimenti e mostrandone la faccia nascosta. È tutto un gioco di dritto e rovescio, ogni apparente virtù rivela la sua fodera di magagna: «La clemenza dei regnanti spesso non è che una politica per conquistare l'affetto dei popoli» (15); «L'attaccamento o l'indifferenza dei filosofi per la vita non era che una propensione del loro amor proprio» (46); «La sincerità è un'apertura del cuore. La si trova in pochissime persone; e quella che si vede abitualmente non è che un'astuta dissimulazione per attrarre la fiducia degli altri» (62); «Ciò che sembra generosità spesso non è che un'ambizione dissimulata che disprezza i piccoli vantaggi per raggiungere i più grandi» (246).
Non sempre le massime sono geniali, alcune sono banali, ma quel che colpisce è il compatto pessimismo del prontuario, oggetto in prosieguo di tempo di reazioni diverse, spesso ostili: specchio perfetto dell'uomo secondo La Fontaine (a Rochefoucauld è dedicata la «favola» L’uomo e la sua immagine), ma «triste libro» secondo Rousseau, frutto di «miseria» mentale per Alain, puro esercizio matematico agli occhi di Camus.
Eppure: Roland Barthes, che le ha lungamente frequentate, sfuma nelle Massime il loro carattere ambiguo e benefico. Ambiguo in quanto la massima si situa su una friabile frontiera: è la stessa società mondana che delega l'intellettuale La Rochefoucauld a contestarla, concedendosi attraverso di lui lo spettacolo della propria contestazione. Benefico poiché la forma lapidaria, definitiva della massima, per quanto negativa, è più rassicurante dell'insopportabile duplicità del tutto.
A poco servono le attenuazioni (spesso, quasi sempre) e le strategie di compensazione (su cui hanno insistito vari studiosi francesi, e da noi Corrado Rosso) messe in opera nella formula stessa della massima, tramite l'uso di subordinate concessive («Per quanto...»), se poi la proposizione principale cade come una ghigliottina eliminando ogni incertezza: «Per quanto impegno si metta nel coprire le proprie passioni con apparenze di pietà e di onore, esse traspaiono sempre attraverso questi veli» (12); «Per quanta diffidenza abbiamo verso la sincerità di chi ci parla, crediamo sempre che dica la verità più a noi che agli altri» (366).
Denunciando la doppiezza ma frequentando i salotti più eleganti dell'epoca, in perfetto ossequio alle norme del vivere cortese, La Rochefoucauld praticherebbe allora una morale sostitutiva, assumendo consapevolmente una maschera, come vorrebbe Starobinski? La questione, a dire il vero, è oziosa. Questo scrittore è un signore, e la morale è un'estetica.

Alias-talpa-il manifesto, 28 giugno 2015

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