13.8.15

Missione a Creta. Halbherr e l'archeologia italiana (Giovanna Bandini)

Federico Halbherr
È il 9 giugno 1899. L’acqua dell’Egeo splende sotto il sole del mattino. Un’accoglienza calda quanto il clima attende Federico Halbherr al suo ingresso nel porto di La Canea: è la prima volta che il grande epigrafista sbarca a Creta nella veste ufficiale di capo della Missione Archeologica Italiana, dopo avervi compiuto per quindici anni esplorazioni e scavi da indipendente. Anche se bastano le dita di una mano a contare i componenti della spedizione (con Halbherr, ci sono lo storico Gaetano De Sanctis e l’archeologo Luigi Savignoni cui si aggiungerà il venetista Giuseppe Gerola), la creazione della Missione è un momento di gioia e di gloria nella storia dell’archeologia italiana. Più di ogni altra cosa però, è il risultato - e il giusto riconoscimento - dell’instancabile attività di ricerca del Kyrios Phederikos («Signor Federico», così i cretesi chiamano Halbherr), il gentiluomo esploratore, uno dei personaggi più singolari e affascinanti della composita élite europea residente nelle città della Creta settentrionale, che ha girato tutta l’isola, come scrive Gaetano De Sanctis, «acquistandovi una popolarità quasi leggendaria, sicché si parlava di lui, delle sue cavalcate, delle sue scoperte, dai contadini dell’interno cretese con ammirazione sconfinata, e al nome di Phederikos si aprivano tutte le porte».
È già dal 1884, infatti, che Halbherr attraversa Creta a cavallo in lungo e in largo perché il suo maestro, Domenico Comparetti (grecista, latinista, fennologo, studioso di tradizioni popolari), avendo compreso l’importanza degli studi epigrafici per la storia delle civiltà classiche, lo ha spinto a compiere un viaggio alla ricerca di iscrizioni prima nelle Cicladi e poi a Creta; approdato nella più grande e misteriosa delle isole greche, il giovane allievo, dotato di un intuito geniale e aiutato da un pizzico di «fortuna del principiante», ha scoperto quasi subito la «regina delle iscrizione greche»: l’epigrafe di Gortina.
Un muro intero recante inciso un codice giuridico del V. sec. a.C., un testo di eccezionale importanza per lo studio della civiltà greca, non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello linguistico e antiquario. Quando Halbherr si imbatte nell’epigrafe, questa gli appare come un orlo di muro sporgente dal letto di un canale: lo studioso passa ore e ore con le gambe immerse a metà nell’acqua a pulire e copiare il testo, gran parte del quale, però, è ancora sepolta. Informato subito Comparetti del ritrovamento fortunoso e straordinario, decide insieme a lui che deve assolutamente trovare il modo di restare a Creta. Nel 1885 accetta così l'incarico, affidatogli dal Sillogo Culturale di Iraklion, di scavare l’Antro Ideo, la grotta sul monte Ida che secondo il mito era stata la culla di Zeus neonato; l’assunzione di tale impegno non è che il mezzo per potersi dedicare a ciò che davvero gli preme: l’iscrizione di Gortina.
Ad essa continua a lavorare pur se tra molte difficoltà, prima tra tutte l'ostilità dei proprietari del campo dove sorge il muro iscritto che, stanchi delle «invasioni» dell’italiano, arrivano anche ad aprire la chiusa del canale mentre egli sta proseguendo la copiatura del testo: solo le braccia robuste del suo attendente cretese, Manolis Iliakis, sportosi dalla sponda a sollevarlo, impediscono che sia travolto dall’erompere delle acque. Ma la passione per la ricerca è più forte della corrente di un canale. Non ottenendo dalle autorità cretesi l’esproprio del terreno, riesce però a convincere i proprietari a venderlo e lo acquista grazie ad un finanziamento privato del generoso Comparetti. Così può procedere allo scavo di Gortina, dove ritrova anche un tempio dedicato ad Apollo Pizio, e termina di portare allo scoperto la «Grande Iscrizione» (8,71 m. di lunghezza per 1,705 di altezza) di cui cede l’onore della pubblicazione al maestro.
Uno dei blocchi dell'epigrafe di Gortina. Contiene una legge.
Del tutto alieno dalla lotta per il prestigio accademico, Halbherr offre la pubblicazione dei bronzi rinvenuti nell’Antro Ideo al collega Paolo Orsi; sembra che egli senta quanto ancora ci sia a Creta da portare alla luce e che solo questo gli importi: esplorare e trovare, godere l’incognita della ricerca e l’appagante conferma della scoperta. È un caso unico tra gli studiosi. Grazie alla straordinaria portata dei suoi ritrovamenti epigrafici (oltre a quella di Gortina, ha individuato più di 160 altre iscrizioni disseminate per l’isola), l’università di Roma nel 1889 istituisce una cattedra di Epigrafica Greca e gliela affida.
Nonostante il nuovo impegno accademico, l’esploratore non abbandona Creta; l’isola è vastissima e quasi del tutto sconosciuta dal punto di vista archeologico; il lavoro da fare è enorme. Egli continua a recarvisi quasi ogni anno, anche se con una sospensione forzata tra il 1889 e il 1892: in quel periodo, infatti, Creta diventa quasi inaccessibile per via dei disordini civili provocati dall’odio secolare dei cretesi verso i dominatori turchi. Ristabilita una relativa calma, Halbherr può tornare a riprendere i lavori grazie ad un finanziamento dell’Archelogical Institute of America, consapevole di non essere un archeologo in senso stretto, chiama a sé i giovani nomi emergenti dalla Regia Scuola Nazionale di Archeologia di Roma (Lucio Mariani, Luigi Savignoni, Antonio Taramelli, tra gli altri), con i quali inizia un’indagine archeologica dell’isola che porta alla individuazione del sito del palazzo minoico di Festòs. Nel 1897 nuovi tumulti costringono il gruppo di Halbherr a un abbandono precipitoso dei lavori e di Creta stessa, ma gli sviluppi della rivolta imprevedibilmente facilitano la posizione degli italiani nell’isola e creano le basi politiche per la costituzione della Missione Archeologica Italiana di Creta: l'Italia, infatti, fa parte della coalizione europea che interviene sul fronte cretese del conflitto greco-turco e che decreta l’indipendenza di Creta dall’impero ottomano.
Così gli italiani, sentiti dai cretesi come i liberatori dal dominio turco, nel giugno 1899 sono ricevuti con tutti gli onori sia dalla popolazione che dalle autorità: il principe Giorgio di Grecia, reggente di Creta per conto della coalizione europea, riceve i componenti della Missione il giorno dopo il loro arrivo a La Canea e dà ad Halbherr la concessione di scavo, oltre che per Gortina e Festòs, anche per Priniàs e Axos, e lo autorizza a compiere saggi nei luoghi che ritiene archeologicamente interessanti, purché non assegnati già ad altre missioni. Con la ratifica ufficiale e l’insediamento stabile, i lavori della Missione Italiana si organizzano e si dà inizio ai primi scavi sistematici, a cominciare da Gortina - che si è rivelata essere una vera e propria città - e dall’ultimo promettente sito identificato, quello del palazzo di Festòs. Dal 1900, Halbherr inizia a portarlo alla luce con l’aiuto di Luigi Pemier, brillante allievo della Scuola di Roma, nonostante siano subito evidenti l’entità dello scavo e l’importanza del palazzo, la Missione, però, viene presto a soffrire della mancanza di fondi che tormenta gli istituti pubblici italiani. Tale mancanza risalta in modo più stridente al confronto con i mezzi di cui dispongono invece gli inglesi che scavano in grande stile a Cnosso, in contemporanea - e in concorrenza - con gli italiani.
Il baronetto Arthur Evans, oltre ad essersi assicurato la concessione di scavo per le zone più importanti della Creta centrale e orientale, ha comprato l’acropoli dove sorgono i resti del palazzo di Cnosso per 11.000 sterline, ed ha alle sue dipendenze un centinaio di operai cretesi nonché quaranta esperti inglesi. Anche gli Americani, non sono da meno: la fondatrice della loro missione, Harriett Boyd, la «pasionaria» dell’archeologia, prima donna al mondo a dirigere uno scavo, nel 1901, per i lavori a Goumià assume oltre novanta operai, più una decina di ragazze solo per lavare le ceramiche. Il Kyrios Phederikos è solo. Dopo gli esordi quasi trionfali del primo anno, deve continuamente sollecitare da Roma l’invio di finanziamenti e di collaboratori, ottenendo, quando va bene, qualche migliaio di lire e il ritorno di Pemier, e può permettersi di assumere al massimo una decina di operai. Ad ogni necessità della Missione provvede sempre lui personalmente: è lui che acquista tutto l’occorrente, a Roma come a Candia, dalla carta da disegno allo squadro per i rilievi, dai lettini da campo alle coperte, alle tende. E, senza alcuna sovvenzione, talvolta affiancato dal solo Perrier, riprende la via, avventurosa al limite del pericolo, delle cavalcate attraverso l’aspra Creta dell’interno «a cercare un altro luogo dove metter la zappa in terra», come scrive nelle lettere a Comparetti. Ma è in una di queste spedizioni solitarie che scopre, non lontano da Festòs, le rovine di un altro palazzo più piccolo, la cosiddetta villa di Haghia Triada, dove dal 1902 inizia gli scavi e trova reperti meravigliosi, tra cui il famosissimo sarcofago dipinto, uno degli esempi più alti dell’arte pittorica minoica.
Una foto ricordo degli scavi a Festòs (1909)
Per tutto il primo decennio del ’900, anche se con il problema costante della precarietà economica, i lavori della Missione proseguono intensi e fruttuosi sia a Haighia Triada che a Festòs; qui il palazzo che viene portato alla luce, si rivela grandioso quanto quello di Cnosso e restituisce splendidi manufatti tra cui il particolarissimo disco d’argilla inciso, detto appunto «disco di Festòs», i cui pittogrammi costituiscono ancora adesso imo degli enigmi più affascinanti per gli studiosi. Anche a Priniàs, dove la terra smossa dalle arature rivelava da tempo iscrizioni greche, nel 1906 si comincia a scavare e si scopre un tempio ellenico arcaico.
Nel 1909, esattamente dieci anni dopo la creazione della Missione, ancora grazie all’opera di Halbherr, viene fondata la Scuola Archeologica Italiana di Atene: da questo momento in avanti, i lavori della Missione di Creta si legano alle iniziative della Scuola di Atene (il primo direttore è Luigi Pemier) e gli scavi cretesi diventano ad un tempo l’attività primaria della Scuola e la palestra per i suoi giovani allievi. Dopo tanti risultati, ottenuti con generoso impegno e pochissimi mezzi, il
Kyrios Phederikos, comunque, non riposa: continua a dedicarsi alla Missione e alla gente di Creta (non avendo avuto figli, nel 1920 adotta una ragazzina cretese del villaggio vicino a Gortina) ed ogni estate è nell’isola per le campagne di scavo, anche dopo aver compiuto da tempo i settant’anni, fino alla sua morte nel 1930. Di fronte ad una figura così importante e piena di fascino, stupisce l’oblio che l’avvolge: molti tra gli stessi esperti di antichità classiche ignorano il nome di Halbherr, mentre quello di Evans è familiare anche agli studenti di liceo nei cui libri è citato come lo scopritore dell’arte minoica. Eppure proprio Evans non ha esitato a restaurare il palazzo di Cnosso con ricostruzioni arbitrarie per offrire all’occhio del visitatore una visione scenografica da kolossal holliwoodiano, mentre Halbherr ha lasciato il palazzo di Festòs tale e quale lo veniva scoprendo, limitandosi ad un restauro solo conservativo, sì che la nuda bellezza di Festòs risplende oggi intatta sulla collina che domina la pianina della Messarà.


il manifesto, venerdì 2 luglio 1999   

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