14.8.15

Ragnatele su Platone. Intellettuali nel Seicento (Valerio Castronovo)

Cartesio
Non tutti sono d’accordo sul significato da dare al termine di intellettuale. La definizione che riscuote più consensi designa, in generale, un gruppo depositario di conoscenze specifiche, e che perciò fa parte della classe dirigente; ma che è protagonista al tempo stesso di una funzione critica nei confronti del potere. Ma quando l’uomo di cultura, il dotto di professione, ha cominciato ad assumere questi lineamenti?
Prima ancora dell'Illuminismo, bisogna risalire al Cinque-Seicento. In un’epoca di conflitti civili e religiosi pressoché continui, di rivolte popolari e di repressioni feudali, di carestie ed epidemie senza fine, era inevitabile che al disordine e alla violenza quotidiana si accompagnasse il bisogno di nuovi princìpi, di certezze assolute, che permettessero agli uomini di continuare a sperare e a capire.

Borghesia in ascesa
Proprio questo stato di profonda inquietudine, che portava a dubitare di ogni valore tradizionale, spiega il successo che le idee di Cartesio riscossero fin dalla loro prima comparsa, nel 1637. Il sistema cartesiano, e più ancora lo spirito del filosofo francese — che, partendo dal dubbio metodico, cercava di offrire una «conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla vita», insomma una spiegazione d’ insieme dell’universo — sembrava tagliato su misura per rispondere alle angosce del tempo. Cartesio aveva voluto ridare all’uomo delle ragioni di vivere, di lottare e di creare, ponendo le basi di un nuovo ordine del sapere, fondato sul ripudio di ogni conoscenza passivamente accettata, sul primato del pensiero e sui valori della scienza. Per quanto la filosofia cartesiana presentasse aspetti molto complessi, non riducibili ad un unico denominatore, ad essa si richiamarono fondamentalmente gli illuministi nel porre le basi del razionalismo, della ragione indagatrice e costruttrice della verità.
Quasi negli stessi anni, in uno scritto pubblicato postumo nel 1653, Bacone chiamava alla sbarra Aristotele, definendolo «il peggiore dei sofisti, stordito dalla sua propria inutile sottigliezza, vile ludibrio delle parole», e metteva alla berlina Platone tacciandolo da «sfacciato cavillatore e delirante teologo». Raccomandava inoltre di rivolgersi direttamente alla natura attraverso l’osservazione e l’esperienza, gettando a mare gli «idola mentis» del passato, le ragnatele del sapere pedantesco, in nome della libertà d’indagine, di un metodo scientifico che fosse figlio del proprio tempo.
Dietro lo sgretolamento dei princìpi dell’aristotelismo e del suo vecchio cosmo chiuso e disposto secondo un ordine gerarchico (distrutto dalla rivoluzione copernicana e dalla nuova fisica di Galileo), nei progressi della scienza e nella separazione sempre più netta tra verità di fede e verità di ragione, non si ritrovano soltanto la forza d’urto della borghesia in ascesa, le sue aspirazioni ad affrancarsi da vincoli e pregiudizi, e i suoi interessi per un uso pratico del sapere. All’origine della straordinaria fioritura di idee e di scoperte che fece del Seicento un’epoca rivoluzionaria sotto il profilo culturale, vi fu anche quella sorta di sensibilità barocca, tipica di un’età di transizione, che giustificava intellettualmente il movimento e la diversità come un’esigenza intima di libertà e di avventura.
Come spiegare altrimenti la contraddizione fra la sopravvivenza di un sistema organico come quello aristotelico, sia pur logoro, e la rapida fortuna di alcune intuizioni che rivelavano una nuova visione dell’universo, all’insegna delle leggi del numero e del metodo induttivo? Oppure il dilemma fra lo scetticismo disincantato dei libertini (o il tormentato pessimismo dei giansenisti) e la prorompente fiducia del pensiero razionalista nel potere della ragione umana come pietra di paragone del vero?
In un’agile antologia (La condizione dell'intellettuale nel Seicento, Loescher, 1980), che comprende testi di Montaigne, Charron, Bacone, Comenius, Milton, Galilei, Mersenne, Cartesio, Hobbes, Naudé, Spinoza, Locke, Leibniz, Boyle, Newton e altri ancora, Lia Mannarino ricostruisce a grandi linee lo sfondo dei mutamenti politici sociali e culturali del «grand siècle». Dalle singole testimonianze si può cogliere l’eccezionale varietà di motivi ideali, il crogiuolo di tensioni da cui prese vita l’esigenza di un nuovo ordinamento concettuale unitario: un edificio che avesse per capisaldi l’autonomia del sapere scientifico e la riforma degli studi, la libertà d’opinione e di coscienza, ma in cui vi fosse posto anche per la fede, rinnovata in senso interiore, e per i princìpi della gerarchia e deH’autorità costituita. Il mondo spiegato dagli intellettuali del Seicento attraverso «cause meccaniche e naturali» (legato tuttavia alla concezione di un ente trascendente, ordinatore del tutto), aperto alle utopie della «città ideale» ma restaurato intanto nell’alveo della monarchia assoluta, corrispondeva alle aspettative e agli ideali di una borghesia dinamica e pragmatica, tesa a conquistare nuove forme di conoscenza e di controllo della realtà, ma allo stesso tempo preoccupata di preservare alcuni cardini fondamentali dell’assetto sociale e del sentimento religioso, infatuata delle leggi e dello Stato

Università screditate
Dall’analisi di Lia Mannarino e-merge chiaramente l’itinerario sociale dell’élite intellettuale seicentesca: una nuova classe che nella maggior parte dei casi non aveva alle spalle ascendenze feudali o ecclesiastiche e la cui crescente autonomia riposava sull’agiatezza economica e sull’esercizio di importanti cariche pubbliche. Furono numerosi, in effetti, gli uomini di lettere e di scienze che ricoprirono in questo periodo incarichi di prestigio e di fiducia, in qualità di consiglieri di Stato e di ministri, di magistrati e di precettori, o che intrattennero intensi rapporti con principi e personaggi influenti. La dimestichezza con le Corti e con gli strumenti di governo si spinse sovente ai limiti dell’ortodossia e del conformismo politico, in compenso essa consentì ad alcuni esponenti del mondo culturale di assicurarsi più ampi margini di iniziativa, al di là delle censure ecclesiastiche e del rituale repressivo della macchina statale.
Dalla prima metà del Seicento l’interesse per la sperimentazione e per le scienze si diffuse in tutta l’Europa colta, attraverso viaggi, scambi epistolari, riunioni e dibattiti, sempre più numerosi, mentre nuovi cenacoli e accademie, che abbinavano gli aspetti i teorici e pratici del sapere, presero il posto delle vecchie università cadute in abbandono o screditate dalla ripetizione delle antiche dottrine. Anche gli studi classici si avvantaggiarono di questo più ampio confronto di idee e di progetti, cominciando a liberarsi dagli eccessi retorici e da altre pedanterie formali di cui i collegi ecclesiastici e le università patrizie erano gelosi custodi. Si posero così le premesse per un impegno culturale e civile (sempre più denso di petizioni e discussioni pubbliche, di pamphlets e opuscoli) che col tempo avrebbe investito le stesse fondamenta politiche e sociali dell’assolutismo.

la Repubblica, 6 maggio 1980

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