25.9.15

A una lettrice. Scrittore a Bahia (Jorge Amado)

Sul N.20 di “Lettera Internazionale” (primavera 1989) aperta da un testo di Saramago sul romanzo, una sezione era dedicata alla letteratura brasiliana. Il testo che segue, lì pubblicato con il titolo Lettera a una lettrice, è di Jorge Amado (1912 - 2001), nato e vissuto a Bahia, grande scrittore e militante comunista, autore di molti romanzi tradotti anche in italiano come Sudore, Jubiabà, Dona Flores e i suoi due mariti, Gabriella garofano e cannella, Teresa Batista stanca di guerra.
Nella forma della risposta alle domande di una signora, Amado esprime la sua poetica ed il suo legame strettissimo con il popolo di Bahia. La traduzione e le note sono a cura della rivista. Ho aggiunto io i sottotitoli, sperando che incoraggino la lettura. (S.L.L.)
Jorge Amado
Un’ammiratrice chiese al pittore Carybé, il più bahiano dei bahiani: — Lei è nato a Bahia?
Il pittore delle mulatte, degli orixas (1), della capoeira (2), rispose con il suo leggero sorriso: — Non l’ho meritato, signora.
Carybé l’avrebbe sì meritato, e nessuno più di lui, poiché dalle sue magiche mani Bahia nasce ogni mattina, creata di nuovo in tutta la sua bellezza, ma gli dèi non hanno voluto concedergli questo privilegio.
Io l’ho avuto, signora, l’onore di nascere bahiano e di vivere nella città di Salvador, in intimità con la sua gente. Lei mi dice, generosa e gentile, in una lettera piena di buone parole, che ho fatto questo e quello per Bahia, che merito gratitudine, omaggi, e così via. Assolutamente niente di tutto questo, cara signora, amabile lettrice. Lasci che io le dica che, nel mezzo secolo e oltre delle mie relazioni con Bahia e con il popolo bahiano, sono io il debitore, sono io che debbo essere grato, sono io che devo rendere omaggio. Sono solamente io che nella vita di questo popolo, nella sua saggezza, nella sua dura lotta e ostinata voglia di vivere nonostante tutti i dolori e tutti i numerosi, invincibili ostacoli, ho imparato tutto quello che so. Se ho realizzato qualcosa nella vita, lo devo al popolo di Bahia, alla città di Bahia.

Lo scrittore e il popolo
Rispondo così, signora, alla prima domanda della sua gentile lettera sui rapporti fra lo scrittore e il popolo, quel popolo che per lo scrittore rappresenta, fondamentalmente, il suo personaggio, la farina e il fermento della sua verità, della sua creazione. Questi rapporti devono possedere un carattere di perfetta intimità, perché la conoscenza necessaria allo scrittore per ricreare personaggi, paesaggi e situazioni, non può essere fatta solo di osservazione fredda e prudente, di note nel quaderno, di appunti, per quanto minuziosi e attenti . Con una materia così, se onesta e ampia, lo scrittore potrà senz’altro realizzare cronache e saggi di interpretazione, ma non realizzerà mai romanzi, poesie, vita, sangue, carne, il cuore che urla. Solo la conoscenza vera, completa, quella che non si impara sui libri e neanche con la fredda analisi del grande reporter dal fiuto infallibile, solo quella conoscenza che si è vissuta giorno per giorno, minuto per minuto, nell’errore e nella verità, nell’allegria e nella tristezza, nella disperazione e nella speranza, nella lotta e nel dolore, nella risata e nel pianto, nella vita e nella morte — solo questo tipo di conoscenza rende possibile la creazione.
Come si può pensare di ricreare la vita per sentito dire? Come si può parlare di questo paese, di Bahia, di questo popolo meticcio e antico, forgiato da un lungo e difficile cammino, in una mescolanza di razze, come parlare di questa città «situata a oriente del mondo» — frase di una appassionato cronista — dove diverse culture si sono amalgamate, i colori si sono mischiati formandone uno nuovo, medito, dove varie nazioni si sono unite in un letto d’amore senza limiti, come scrivere della vita ardente e magica di Bahia senza esserne parte integrante, come? Per ricreare la vita è necessario averla prima vissuta ardentemente, con cuore appassionato.

Il “candomblé”
Ecco perché, signora, non posso rispondere semplicemente con un sì o con un no a un’altra domanda della Sua lettera: Lei crede al candomblé (3). Uno dei miei personaggi, il mulatto Padro Archanjo, bidello dell’università e uomo di scienza, stregone ed etnologo, ha già risposto alla stessa domanda nelle pagine della Tenda dei Miracoli, discutendo con un professore di medicina. «Sono materialista» ha detto, e io qui lo ripeto: sono materialista ma il mio materialismo non mi castra, non mi porta a essere d’accordo con la meschinità di dogmi così limitanti per l’esperienza umana come quelli di qualsiasi religione o setta. Non ho trasformato il mio materialismo in setta, in inquisizione o castrazione o tribunale, sono libero esattamente perché possiedo «riga e compasso». Bahia mi ha già dato riga e compasso — ha scritto il poeta Gilberto Gii in un verso immortale. Così posso sedermi sul mio trono di obà (4), coperto di collane, rivestito dell’autorità e dell’onore che mi sono stati concessi dai miei amici delle religioni afro-bahiane. Non solo posso sedermi su questo trono, ma lo devo fare fra gli iaós (5), feitas (6) e ogas (7), al lato della mae de santo (8) e degli alti dignitari, perché solo così, nella vita reale e profonda e non nella facile osservazione del reporter, sarò in grado di parlarvi delle divinità e della vita popolare, dei misteri, del mondo magico bahiano, solo così potrò ricreare la sua verità, ricreare l’aspetto di questi uomini e donne che mi circondano, i cui piedi danno vita alla danza più bella, uomini e donne che hanno portato dal fondo della loro schiavitù, sulle spalle segnate, tanta bellezza e l’hanno salvata e conservata per noi.
Tutte le volte che sento una di queste canzoni moderne di cantanti famosi, che copiano il ritmo del candomblé, che rubano le parole alle strade di Bahia, mi chiedo se questi felici autori si rendono conto di cosa sia stata l’epopea del nero brasiliano, schiavo strappato alla libertà della foresta, incatenato con i suoi dei e i suoi tamburi, battezzato per forza, violentato per trasformarlo in animale. Questi giovani, gloriosi autori, capiscono quanto c’è di lotta, di coraggio, di irriducibile speranza in ognuno di questi orixà, in ogni passo di danza, in ogni battuta di atabaque (9), nel ritmo stesso della nostra musica brasiliana? Il nero non ha permesso che lo si trasformasse in animale, non ha dimenticato i suoi retaggi culturali, il suo mondo di paure e storie, di dei e usanze. Tutto questo è servito a farli sentire uomini, e molte volte eroi nelle epopee dei quilombos (10). Zumbi (11) è l’eroe nato dallo schiavo ribelle e dal libero orixà, che si erge per recuperare la libertà.

Credere e non credere
Capirà facilmente, signora, come sarebbe amorfa la descrizione di questa festa di candomblé se la conoscenza dell’artista derivasse solo dall’osservazione, anche se particolarmente acuta, se non ci fosse fra il creatore e la creazione un anello di sangue, anello di fidanzamento e matrimonio, questo battere dei cuori all’unisono. Come vuole che possa darle, viva e ardente, l’immagine di questo mondo magico e custodito ben oltre il pittoresco, il decorativo e il folcloristico, che io le presenti la sua verità, il suo segreto, la sua intima risonanza, se io lo conoscessi solo per aver assistito ad alcune cerimonie, seduto fra i visitatori, alcune volte armato solo di vana curiosità se non addirittura di preconcetti. Se le posso parlare di tutto questo senza mentire è perché tutto questo è parte integrante della mia vita, del mio essere, della mia stessa verità.
Non si tratta, quindi, signora, di credere o non credere, bensì di essere o non essere. Queste cose io me le porto dentro, non le ho ottenute, non le ho comprate in nessun mercato dei sentimenti o delle conoscenze, sono mie di diritto e alcune le conosco addirittura prima di averle viste, le porto dentro di me.

Becchini e ostetrici
Più di una volta si è scritto che l’artista — scrittore, scultore, musicista — più è nazionale più sarà universale e che la sua opera diventerà immortale se esibirà l’impronta del suo tempo. Esiste un’originalità nazionale che differenzia noi brasiliani dal resto del mondo e noi bahiani dalle restanti regioni del paese. Questa originalità, questa immagine nazionale, il colore del nostro spirito e il colore della nostra pelle, la nostra fisionomia, non possono essere dimenticati neanche per un momento.
Ecco perché, signora, lo le dico che tutto quello che so, tutto quello che ho fatto e interpretato, la parte migliore di me, mi vengono dal popolo bahiano, sono io il grande debitore, quello che è grato e rende omaggio. Le nostre relazioni sono intime, quelle di padre e figlio, quelle di figlio e padre, poiché noi che scriviamo sulla vita del popolo siamo figli e padri al tempo stesso, partoriti dall’immenso ventre del popolo e gravidi della sua vita; dal nostro lavoro nasce la sua realtà in termini di arte. Padri e figli del popolo e insieme, come diceva Maksim Gorkij, becchini o ostetrici. Viviamo in un’epoca di cambiamenti, un’epoca drammatica e bella, terribile e appassionante. Epoca di minacce atomiche e di conquiste dell'universo, quando le frontiere della terra si estendono all’infinito, senza limiti. Dove arriverà l’uomo domani, fino a dove lo porterà la sua avventura?
Becchini, sotterriamo una società in stato di putrefazione; ostetrici, vediamo nascere, aiutiamo a nascere un nuovo mondo. Ma, forse, nessuno di noi oggi è capace di dire come sarà il domani, perché il nostro tempo ha rotto con tutti i dogmi e ha messo nella bilancia della contestazione tutte le affermazioni e tutte le profezie. Dobbiamo registrare, signora, questo sì!, la crescita del nostro tempo, la morte del vecchio, del passato, delle strutture decrepite, e la nascita del nuovo, del futuro, di un orizzonte illimitato. Ma dobbiamo farlo avendo, al tempo stesso, la nozione dell’insieme e la conoscenza del dettaglio. Di quello che è il nostro privato.

La democrazia della mescolanza
Nel caso di Bahia, qual è l’impronta fondamentale? Io le direi, signora, che questa impronta è la mescolanza. Qui tutto si è mischiato, in un amalgama colossale. Sangue, razze, religioni, usanze, neri e bianchi, indios e meticci, ricchi e poveri, mulatti con mulatte, e i risultati sono questo colore di pelle e questa coscienza democratica, la cordialità e la dolcezza, il piacere sensuale di ogni istante. Le nostre immagini si sono sommate, si sono moltiplicate, e dentro di noi, nel nostro sangue, le contraddizioni hanno trovato la via della convivenza.
Quanto a me, ho voluto soltanto fissare, per quanto è possibile e con tutti i miei limiti, l’uomo nato da tutto questo amalgama e narrare come quest’uomo abbia popolato democraticamente la sua nazione per ricostruirla senza preconcetti. Per questo ho cercato di essere fedele ai suoi valori caratteristici, senza preoccuparmi in nessun caso del circostanziale e dell’immediato. Ho scritto dell’uomo nella sua intesa più profonda con la terra e gli altri uomini. Ho voluto segnalare i momenti più importanti, l’amore e la morte.

Cacao, amore e morte
Veramente, se leggo le pagine scritte dall’adolescenza a oggi in più di quarantanni di duro lavoro, di mestiere instancabile, scopro l'amore e la morte sempre presenti, al centro degli avvenimenti. L’amore e la morte, ossia la vita e la morte, perché amore e vita sono sinonimi.
Provengo dall’universo primitivo e feroce del cacao. Ho vissuto, signora, l’infanzia fra sparatorie, nell’era della conquista della terra per la piantagione degli alberi dai frutti d’oro. Il cacao aveva aperto radure nella foresta vergine e aveva acceso la luce gialla dell’ambizione nel petto degli uomini. Il coraggio e la crudeltà diventavano necessari, esigenze di un tempo in cui si ammazzava e si viveva. Gli spari echeggiavano nei campi e nelle foreste durante gli agguati nelle notti senza luna, e si propagavano nelle città e nei villaggi. Caseggiati nascevano sulla scia dei cadaveri, nella terra bagnata di sangue. Lì ho colto il fiore della vita addobbata nella morte. Fiorivano le piantagioni di alberi di cacao, e qualche volta una croce segnava la caduta di un uomo in quella lotta senza quartiere. La terra, di nessuno, era conquistata dalla punta del fucile, dal filo del pugnale. In queste terre di II-heus e Itabune, in luoghi che anticamente si chiamavano Pirangi e Àgua Preta, Rio do Brago, ho parlato con uomini e donne dalla rude umanità per tracciare con loro la saga della conquista della terra, la grandezza e la miseria dei colonnelli (12) e del latifondo, la nascita di una civiltà dalla bocca dei fucili, di una cultura ammantata di violenza. Ho raccontato storie paurose, ho eretto il monumento di uomini che erano al tempo stesso fraterni e brutali, dalla impassibile villania, ho parlato di donne che hanno mantenuto alta la fiamma dell’amore lì dove comandava solo la morte.

Note
(1) Divinità secondaria della mitologia africana [ndt].
(2) Gioco atletico fatto con un rasoio fra i piedi [ndt].
(3) Danza di neri, per estensione macumba [ndt].
(4) Re, ministro della macumba [ndt].
(5) Iniziati alla macumba [ndt].
(6) Preparati alla macumba [ndt].
(7) Protettori del candomblé [ndt].
(8) Medium della macumba [ndt].
(9) Tamburello [ndt].
(10) Capanne nella foresta dove si rifugiavano gli schiavi neri fuggiti [ndt].
(11) Fantasma che va nelle case nelle ore notturne [ndt].
(12) Non militari, ma coloro che comandano nella realtà locale, quasi sempre latifondisti [ndt].


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