9.9.15

Attilio Bertolucci in morte di Giorgio Caproni: "Ricordando il diabolico Cacciatore"

Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni
Ho ricevuto la notizia di mattina presto dal poeta, più giovane di noi, di me e di Giorgio, dal poeta Francesco Tentori. Lui, Giorgio Caproni, più giovane di me soltanto di pochi mesi, lui del 12, io dell'11: ci scherzavamo, le poche volte che negli ultimi anni ci incontravamo, le molte che ci scontravamo quasi apposta, quando ancora insegnava da maestro in una scuola elementare che sta nella prolunga della strada dove io vivo a Monteverde Vecchio.
Si scherzava sul fatto che io abitavo in una casa più bella della sua, allora sita nella bassura di via dei Quattro Venti, la mia alta su via Carini, con vista su villa Sciarra e gli ontani di Roma. Ma ormai da qualche anno in pensione si era trasferito in un appartamento più elegante (l'aggettivo era mio e se protestava al mio allegramente comunicarglielo, gli ricordavo che non facevo altro che ripagarlo di sue affermazioni anche pubbliche sulle nostre disuguaglianze) e con vista meravigliosa su un mare di verde come si dice. Ma lui non ammetteva di mari che quello di Genova, dirò dunque con vista meravigliosa su villa Pamphili.
Ci eravamo letti già nei piccoli giovanilissimi libri e ci eravamo sentiti sì, diversi, come era giusto, ma uniti nel rifiuto del ricattatorio susseguirsi di mode letterarie che avrebbero voluto coinvolgerci. Non sta a me, in quest'ora tristissima tanto più tale mentre il sole di questo inverno maledettamente sereno (parlo da figlio di agrari, atterrito dalla siccità) inonda la parte di Roma, città del nostro volontario esilio, dove ci sono le nostre due case, non sta a me stendere bilanci sulla sua opera di poeta. È ormai chiaro, mentre già in se stesso ormai l'eternità lo muta, che i suoi versi rimarranno - dai primi, di un'allegria di ritmi e colori inebriante, agli ultimi e ultimissimi, come naturale di pochi argentini tocchi - messaggi di un'incessante e pure limpida meditatio mortis.
Scrivevo su uno dei suoi ultimi libri, Il franco cacciatore e oggi non saprei cosa aggiungere: “L'argomento è la morte; ma Caproni sa, e già lo aveva insegnato La Rochefoucauld, che non è possibile contemplare la morte, né il sole, a lungo: così egli non contempla, prende la mira e spara, poi scompare per riapparire un valloncello più in là, a ricominciare di scatto. Noi seguiamo questo franco, un po' diabolico cacciatore nella sua battuta terribilmente e allegramente stoica, puntante sempre senza incertezze al bersaglio, sia pure con la consapevolezza intrepida del non evitabile scacco finale. Una metafora segue l'altra, un crepitio l' altro, con risonanze a non finire nel nostro orecchio e nella nostra anima. Non manca qua e là un riposo, una sosta che permettono di posare l' occhio sul paesaggio (Un albero/ com'è leggero / Com'è leggero / un albero tutto ali, / di foglie, Viene l'autunno, e come / la Fenice / s' accende nel suo rogo); ma ecco il lucido, spietato risvolto (Ma noi, noi al paragone, / che cosa e chi siamo noi, / senza radici e senza / speranza?). E' un esercizio, seguire il poeta, che mette a dura prova; ma ne vale la pena perché finisce per fortificare. Di questo lo ringraziamo”.


“la Repubblica”, 23 gennaio 1990  

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