Una piccola pagina di
storia del comunismo italiano, scritta da Giorgio Amendola, secondo
me splendidamente, per una rivista letteraria diretta da
Giovanni Arpino che ebbe purtroppo una vita breve. A qualcuno
potrebbe sembrare Secchia e a me ricorda Trotzkij. Invece è proprio
Giorgio Amendola. (S.L.L.)
Giorgio Amendola con Lucio Magri |
Giovanni era un operaio
torinese. Nato nel 1894, aveva lavorato alla FIAT dal 1912 al 1921, quando
fu licenziato per motivi politici. Esonerato servizio militare, aveva
partecipato a tutte le battaglie sindacali e politiche del
proletariato torinese, dalle giornate di agosto del 1913
all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Fu una delle
prime vittime della reazione padronale. Obbligato ad emigrare per
cercare lavoro, si fermò a Lione, dove non ebbe difficoltà a
trovare un’occupazione. «Con le mie capacità professionali, non
restavo a spasso per molto tempo » - si vantava orgoglioso. Iscritto
al Partito comunista dalla fondazione, guardia rossa mobilitata per
la difesa de «L’ Ordine Nuovo» nel 1921, continuò
nell’emigrazione la sua attività di comunista. Rispose senza
indugio all’appello del partito, che cercava «funzionari» da
mandare illegalmente in Italia. Al secondo viaggio, nel 1928, fu
arrestato e condannato dal Tribunale Speciale a venti anni di
carcere. Lasciava in Francia la moglie ed una figlia. L’amnistia
del decennale gli abbreviò la pena, ma lo mandarono al confino.
Uscirà soltanto nell’agosto del 1943.
Passai con Giovanni dieci
mesi nel carcere di Poggioreale, a Napoli, nel 1935. Per protestare
contro una restrizione dei diritti dei confinati, soprattutto per
quello che riguardava le possibilità di studio, noi confinati di
Ponza, in grande prevalenza comunisti, ci rifiutammo di rispondere
all’appello serale, e gettammo sul tavolo dell’ufficiale di
servizio i libretti confinari. Eravamo trecento, e per tradurci a
Napoli, ammanettati ed incatenati, ci vollero tre viaggi
dell’ansimante vaporetto, che impiegava 8 ore a coprire il percorso
Ponza-Napoli.
Nel carcere fummo tutti
alloggiati nel più moderno padiglione, quello chiamato «I»
(Italia) inaugurato per l’occasione. Invece delle solite celle
infestate dalle cimici e dove si era rinchiusi in tre, col fetido
bugliolo a portata di mano e di naso, potevamo questa volta disporre
in nove di tre celle che formavano, unite, un piccolo camerone. Sommo
lusso, una quarta cella era destinata ai cessi ed ai lavandini. Nel
nostro camerone, la responsabilità di direzione politica fu subito
assunta dal compagno Giovanni, che teneva i collegamenti, con le
dovute maniere, con gli altri membri del direttivo dispersi nei vari
cameroni.
In dieci mesi di
convivenza Giovanni mi insegnò molte cose, ed io lo considero uno
dei miei maestri. Il suo insegnamento partiva dalle piccole cose. Se
non si fanno bene le piccole cose della vita quotidiana, non sarà
possibile affrontare le grandi prove che ci attendono, diceva. Nelle
condizioni in cui ci trovavamo, i suoi nemici quotidiani erano la
pigrizia, la sporcizia, l’avarizia.
Primo punto, la pulizia.
Dobbiamo viverci dieci mesi in questo camerone, che ci è stato
consegnato pulito, perché ancora non utilizzato. Dobbiamo lasciarlo
nelle migliori condizioni possibili. Dobbiamo dimostrare che i
comunisti sono persone civili ed educate. Ogni giorno, dunque,
lavaggio generale con acqua e segatura. Ottenuta una candela,
passammo il pavimento a cera. Guai a chi gettava una cicca o della
cenere per terra. Lo fareste a casa vostra? - domandava con tono
severo, che toglieva la voglia di dire la verità a chi a casa si era
effettivamente macchiato di tali delitti. Le finestre restavano
sempre aperte, la notte, anche d’inverno. Era esigente anche per
quanto riguardava la pulizia personale. «Abbiamo la fortuna di avere
l’acqua corrente, approfittiamone». Purtroppo le cimici entrarono
nei cameroni nuovi, assieme alle brande. La lotta contro le cimici
divenne cosi un compito quotidiano, ma questa volta nemmeno Giovanni
riuscì a spuntarla.
Secondo punto, lo studio.
La giornata era divisa in periodi. La mattina studio collettivo
(storia italiana, storia del movimento operaio, principi del
marxismo). I libri, camuffati sotto rilegature ingannevoli, non ci
mancavano. Il pomeriggio era riservato allo studio individuale; la
sera alla lettura dei romanzi. Per i giuochi (scacchi e dama, con le
pedine ed i pezzi modellati con mollica di pane) era riservata un’ora
soltanto, prima del silenzio. Giovanni non mancava mai di
sottolineare il valore dello studio. Voi che avete avuto la fortuna
di studiare - diceva ad un paio di intellettuali presenti nel
camerone - dovete aiutare gli altri ad utilizzare il tempo del
carcere per formarsi una cultura. Il fascismo ficca i comunisti in
carcere, e non sa che prepara i quadri dirigenti di domani.
Studio, per Giovanni, voleva dire conoscenza della realtà, cioè più forte coscienza di classe. Lo studio non doveva avere scopi egoistici, individuali. Ad un operaio napoletano che voleva prepararsi a partecipare agli esami per diventare maestro, egli diceva che lo studio non doveva servire a trasformare gli operai in piccolo-borghesi, ma a rafforzare negli operai la conoscenza del mondo, quindi la capacità combattiva. Non si tratta di fare cambiare stato sociale a qualcheduno, ma di rafforzare e migliorare le capacità di lotta della classe. L’operaio napoletano riuscì effettivamente a diventare maestro, ma continuò ugualmente, malgrado il cambiamento di stato sociale, ad essere sempre un buon combattente comunista.
Studio, per Giovanni, voleva dire conoscenza della realtà, cioè più forte coscienza di classe. Lo studio non doveva avere scopi egoistici, individuali. Ad un operaio napoletano che voleva prepararsi a partecipare agli esami per diventare maestro, egli diceva che lo studio non doveva servire a trasformare gli operai in piccolo-borghesi, ma a rafforzare negli operai la conoscenza del mondo, quindi la capacità combattiva. Non si tratta di fare cambiare stato sociale a qualcheduno, ma di rafforzare e migliorare le capacità di lotta della classe. L’operaio napoletano riuscì effettivamente a diventare maestro, ma continuò ugualmente, malgrado il cambiamento di stato sociale, ad essere sempre un buon combattente comunista.
Terzo punto,
l’eguaglianza. Tra i confinati trattenuti nel carcere di Napoli,
pochi ricevevano soldi da casa. Quei soldi formavano la cassa del
collettivo. Sulla base delle scarse risorse raccolte, fu deciso di
assegnare ad ogni detenuto politico trenta centesimi al giorno di
sopravitto, non di più (in altre carceri ed in altre situazioni si è
arrivati ad assegnare fino a quote di una lira). Con trenta centesimi
al giorno c'era poco da stare allegri. Ogni detenuto con una somma
sul libretto avrebbe potuto spendere, per il suo consumo individuale
fino a tre lire al giorno di vitto, cioè poteva comperare un piatto
di paste e un etto di prosciutto. I comunisti che disponevano sul
libretto di una somma dovevano invece ordinare la lista di viveri
indicati dall’organizzazione: molte razioni di patate, qualche
razione d’olio, qualche pomidoro. Dovevano, inoltre, pretendere di
essere creduti dalle guardie carcerarie quando affermavano che le
razioni di patate erano tutte per loro, essendo proibito il passaggio
di viveri tra detenuti. Così chi riceveva più soldi da casa, o
perché apparteneva a famiglie più agiate o perché le loro famiglie
erano aiutate dal «soccorso rosso», finivano col rischiare le
punizioni. «Che cosa avete da lamentarvi?» — chiedeva severo
Giovanni - «anche questo è un compito di partito da assolvere».
Nacque la questione se
nella quota del sopravitto era da comprendere anche il tabacco. C’era
il pericolo che i compagni spendessero i loro pochi soldi in tabacco,
con danno evidente per la propria salute. Questa volta Giovanni, che
non fumava, dimostrò la sua umana comprensione. Propose di dare ai
fumatori dieci centesimi al giorno in più, poca cosa, appena due o
tre «spinelli», ma di obbligarli a mangiarsi gli altri sei soldi in
patate.
La vita era sempre lotta,
affermava Giovanni, e richiedeva pertanto, sempre, nelle piccole e
nelle grandi cose, volontà disciplina, severità. Queste erano le
doti proletarie. I “piccoli borghesi” che inquinavano la classe
operaia recavano, con loro, i difetti dei ceti di origine,
l'arrivismo,la pigrizia, la faciloneria. Di fronte alle autorità
carcerarie Giovanni chiedeva un contegno corretto, che non ci
esponesse ad inutili punizioni o ad osservazioni sgradevoli. Il
regolamento andava osservato, per restare più liberi. In ogni caso
mai alzare il braccio nel saluto fascista.
Anche nelle questioni
sessuali, presenti inevitabilmente nella vita di una collettività,
doveva sempre predominare - secondo Giovanni - la volontà ed il
rispetto della propria dignità umana. Perciò, nella storia della
collettività di partito in carcere, rarissimi sono stati gli accenni
a tendenze omosessuali, subito stroncate dalla vigilanza collettiva.
Per Giovanni anche la masturbazione era una pratica da combattere e
vincere. Ci si può riuscire, diceva. E troncava sempre ogni discorso
licenzioso, quelle lunghe divagazioni sulle capacità amatorie, o
sulle pretese molteplici esperienze vissute, alle quali si affidano
le fantasie erotiche dei reclusi.
Giovanni ci parlava a
lungo delle esperienze di lotta vissute dal proletariato torinese nel
decennio 1912-1922. Ci parlava dei giovani del circolo comunista di
Borgo San Paolo, rigorosi nell’osservanza di un severo costume
morale. I giovani comunisti di Borgo San Paolo non frequentavano i
bordelli, non si ubriacavano, erano esempio di condotta morale, erano
chiamati «san paolini », per scherzo, da altri giovani operai, che
facevano un gioco di parole tra gli abitanti del borgo San Paolo ed i
fedeli del culto di San Paolo. Ma i comunisti sanpaolini non erano
bigotti, anzi si dichiaravano atei, e dalla loro capacità di
autodisciplina trassero profitto per compiere il loro primo dovere di
“guardie rosse”.
Per resistere bisognava
essere forti, sapere vivere con poco, mettere anche qualche soldo da
parte, in modo da poter resistere un giorno di più in caso di
necessità. I primi a cedere di fronte ai padroni sono sempre gli
ubriaconi, i viziosi, quelli che hanno le mani bucate. Ed anche le
famiglie c’entravano. Non si può essere un buon rivoluzionario, se
tua moglie non ti comprende e non è pronta a fare la sua parte di
sacrifici. Giovanni non ci leggeva le lettere che gli mandava la
moglie, ma lo faceva per pudore, perché la sua era una compagna
forte e coraggiosa, e non gli rendeva la vita più amara con inutili
recriminazioni o con pur giustificate lamentele, come facevano altre.
E poi affermava, per
resistere di fronte al padrone, bisogna essere capaci. Giovanni era
orgoglioso della sua capacità professionale di tornitore. I
comunisti debbono essere i migliori in tutto, i più capaci, ognuno
nel proprio campo. Così possono dare l’esempio di quello che
potranno fare, quando saranno al potere: onesti e capaci. Se nella
fabbrica sei un operaio capace, padrone del mestiere, nessun capo
reparto potrà farti un’osservazione, e tu conquisterai un
ascendente sui giovani operai, li potrai assistere nel lavoro, e così
avviarli anche sulla buona strada politica. In ogni campo Giovanni
esigeva un lavoro ben fatto, senza sciatterie, rifinito nel modo
dovuto.
Così, nel lavoro
cospirativo, queste erano le doti richieste: puntualità, segretezza,
vigilanza. Giovanni era stato arrestato, perché il compagno atteso
arrivò sul luogo indicato con un ritardo di un quarto d’ora.
Giovanni aveva commesso l’errore di protrarre l’attesa oltre il
dovuto, per non perdere il collegamento, ma era stato osservato,
fermato e portato dentro. Avrebbe dovuto allontanarsi subito, passati
i cinque minuti concessi dalle norme. Pochi minuti perduti, voleva
dire una vita in carcere.
Giovanni partì
dall’isola di Ventotene soltanto il 20 agosto. Passò a Torino
pochi giorni, non s’incontrò con sua moglie restata a Lione. Dopo
l’8 settembre fu tra i primi a salire sui monti, col compito di
raccogliere gli sbandati e formare un primo raggruppamento
partigiano. Cadde in combattimento pochi mesi dopo, nel dicembre
1943.
Ho ricordato spesso i
suoi insegnamenti negli ultimi anni, ed il suo ricordo mi ha aiutato
a resistere all’ondata di faciloneria e permissività, come si dice
ora, che ha minacciato di travolgere quelle che Giovanni chiamava le
virtù proletarie: severità, ordine, pulizia morale e fisica,
volontà, l’amore del lavoro ben fatto, l’orgoglio di essere tra
i più capaci, i primi in fabbrica o in classe. L’ubriacatura è
passata, credo, e questi valori, a lungo beffeggiati, tornano ad
essere apprezzati.
Una classe che perde le
sue posizioni di forza dirigente può anche abbandonarsi e stordirsi
negli effimeri piaceri dell’ultima vigilia. Sa di avere i giorni
contati e li vuole vivere a modo suo. Intanto poi arriverà il
diluvio. Ma una classe che ascende e pone la sua candidatura a
diventare classe dirigente, non può concedersi lussi o distrazioni.
Tesa deve essere al raggiungimento del proprio obiettivo, severa con
se stessa e con gli altri, implacabile nel combattere pigrizie e
sperperi. Una rivoluzione è sempre puritana. Quando l’osservanza
delle norme severe che hanno permesso la vittoria diventa ipocrita
consuetudine, copertura di ogni abbandono, codice falso e bigotto,
allora essa va denunciata e spezzata. Ma per vincere occorre essere
severi con se stessi e con gli altri. Ciascuno faccia bene il suo
lavoro.
Se non si fanno bene le
piccole cose, non si potranno compiere le grandi imprese, che pure
sono oggi così necessarie: questo è l’insegnamento di Giovanni.
il RACCONTO, anno II n.8
gennaio 1976
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