1.9.15

Classici. “Apocalittici e integrati” di Umberto Eco (Gianfranco Marrone)

Umberto Eco
La fortuna di un libro si misura anche da quella del suo titolo, dal modo in cui una società, magari storpiandolo, lo accetta e lo legge. Argomento che vale senz'altro per la letteratura (dove i nomi dei personaggi celebri da Don Chisciotte al Gattopardo, divengono spesso formidabili antonomasie) e che funziona anche per quei testi di saggistica (Il disagio detta civiltà, L'uomo a una dimensione, Avere o essere, ...) i cui titoli finiscono per generare espressioni proverbiali di ampia portata.
Molti libri di Umberto Eco hanno avuto questo destino. Si pensi a Opera aperta, La struttura assente, Il superuomo di massa, Il nome della rosa. Ma si pensi soprattutto ad Apocalittici e integrati, fondamentale saggio del 1964 sulle comunicazioni di massa […] un testo che ha contribuito fortemente al radicarsi di un'identità culturale nostrana avulsa da ogni autarchico provincialismo, un'identità che si costituisce e si consolida grazie a una costante e critica attenzione nei confronti di quanto altrove nel mondo si pensa e si scrive. Anche quando, come è il caso in questione, quel che fuori confine si pensa e si scrive non sono Scienza o Filosofia o Letteratura Alte e Riconosciute ma fumetti, canzoni di consumo, romanzi popolari, radio e televisione, pittura di second'ordine e varia oggettistica kitsch.
Il principale merito di quel libro stava e sta nell'aver attirato l'attenzione sul fatto che i mezzi di comunicazione di massa (nonostante siano «mezzi» e siano «di massa») producono forme e contenuti culturali a sé stanti, come tali degni d'esser presi in serena considerazione. E ciò a prescindere dai pregiudizi critici che tendono aprioristicamente a bollarli ora come pericolosi e degeneri (è l'ostinazione di intellettuali «apocalittici» come Marcuse o Zolla) ora come esito delle sorti magnifiche e progressive dell'umanità (è la posa di profeti «integrati» come McLuhan).
Certo, l'idea che i mass media producano cultura, e che tale cultura debba esser studiata e interpretata in modo approfondito, appare oggi ovvia e banale. La proliferazione dei corsi di laurea in scienze della comunicazione ne è la più evidente dimostrazione. Il problema è che, forse, nella maggior parte dei casi quest'idea è passata senza le dovute precauzioni metodologiche,
senza quello spirito critico, senza quella sospettosa frivolezza che circolavano nel libro di Eco. E che gli permettevano di incunearsi, non senza difficoltà ideologiche ma con grande arguzia argomentativa, nell'interstizio fra gli accigliati strali del marxismo francofortese (eternamente forieri di un'apocalisse prossima futura) e l'euforia naïve di chi salutava la società di massa come esempio eccelso di democrazia realizzata (integrandosi acriticamente alle sue contraddizioni interne).
Non a caso, il libro di Eco prende le mosse dalla celebre condanna platonica della scrittura, accusata dal Filosofo di rimuovere le capacità mnemoniche dell'uomo e la sapienza che ne deriva. Un modo per ricordare che, ogni volta che in Occidente è nato un nuovo medium di comunicazione, c'è sempre stato qualcuno pronto a inveire contro di esso, additandolo come causa patente della più atroce decadenza dell'umanità.
È accaduto per la scrittura su papiro e pergamena ma anche per i caratteri a stampa, per il telefono, la radio, il cinema muto e sonoro, la radio, la musica riprodotta con macchine, la televisione. E, ricorda Eco, sempre con la medesima sicumera, regolarmente smentita dagli eventi successivi. Niente di più democratico di Gutenberg, più socializzante della telefonia, più adeguato del giradischi. Il problema è che, nonostante le evidenze della storia, e le stringenti argomentazioni di Eco, gli apocalittici continuano a trovare proseliti: a lungo s'è pensato che internet fosse roba per pedofili e il telefonino per adulteri incalliti; e le chat sono state salutate come la fine d'ogni sensuale incontro fra corpi. Tutto, appunto, regolarmente smentito. Stessa cosa, ribaltata ma sostanzialmente identica, per gli integrati.
Ogni nuovo strumento di diffusione intellettuale è semprestato salutato, come euforico dispensatore di nuova e migliore cultura, sostituendo di fatto il mezzo col fine, il canale con il messaggio. Il problema, per Eco, sta nel fatto che, troppo spesso, «si fa teoria dei mezzi di massa come si facesse la teoria di giovedì prossimo», presi cioè dal ricatto della profezia a breve termine, tanto scema quanto fallace, non foss'altro perché regolarmente smentita dal ritmo con cui tali mezzi inevitabilmente si trasformano.
Per studiare la cultura di massa e i suoi media, allora, bisogna arretrare lo sguardo, e andare in cerca non delle verità dell'ultimo momento, delle variazioni di superficie delle cose e delle idee, delle forme e degli stili, ma degli schemi invarianti su cui questa stesse mutazioni si fondano. Così, la Poetica di Aristotele può spiegare gli sceneggiati televisivi e l'oratoria gesuitica la pubblicità delle saponette, al modo in cui Kant potrà esser utile per interpretare le canzoni di consumo ed Hegel per dare un senso al fenomeno del cattivo gusto.
È appunto questo gesto dell'arretrare lo sguardo, al tempo stesso intellettualistico e liberatorio, che viene eternamente rifiutato sia dagli apocalittici sia dagli integrati: convinti (i primi) che Kant serva soltanto a leggere Kant e speranzosi (i secondi) che per capire la tv basti guardare la tv.
Si capisce allora la ragione per cui l'idea di Eco ha fatto centro, pur nella triste constatazione che la diade proverbiale da egli individuata è ancora dura a morire. La scienza della comunicazione, sembrerebbe, è ancora di là da venire.


Tuttolibri La Stampa, 19 giugno 2010

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