22.9.15

Classici. Nadia Fusini legge Moby Dick

La lettura del Moby Dick come testo classicamente "epico" per la sua aspirazione alla totalità, qui proposta da Nadia Fusini, anticipa l'analisi di Franco Moretti in Opere mondo (Einaudi, 1994) e la collocazione del libro di Melville tra i pochissimi testi che si cimentano con la rappresentazione unitaria della mondializzazione capitalistica. (S.L.L.)
Nadia Fusini
 «È un libro strano che vorrebbe essere un romanzo. E’ un libro capriccioso, eccentrico, retorico, ampolloso, a volte affascinante per le vivide descrizioni». Così un recensore contemporaneo defini il Moby Dick di Melville apparso nel 1851. Che Moby Dick sia un testo sui generis non v’è dubbio. Che sia un impasto assolutamente straordinario di ampollosità retorica e lussureggiante, selvatica bellezza, neppure. E’ una tonalità, che la splendida traduzione di Pavese (che uscì per Frassinelli nel 1932, ora ripresa nella recente riedizione del romanzo - Herman Melville, Moby Dick è la Balena, trad, di Cesare Pavese, Adelphi, 1987) perfettamente cattura.
Traduzione splendida perché riesce a trasportare nell’italiano la tensione d’accumulo che preme sulla lingua melvilliana, la quale procede appunto per accumulo e stratificazione, come se Melville trovasse la specifica potenza del suo linguaggio in una sorta di bulimia, nervosa, grazie alla quale il suo testo s’ingrossa, perdendo forma, ma insieme acquista peso, carne, spessore. E’ una potenza vorace, che tornerà a secoli di distanza in Joyce: altro scrittore onnivoro, eccessivo.
È in ragione di questo procedimento «bulimico» di assunzione del proprio materiale che possiamo comprendere lo stile melvilliano; che è epico, e non drammatico. Malgrado certe parti dialogiche che Melville inserisce nel romanzo, e certe tecniche teatrali (come ad esempio: «Entra
Achab, poi Stubb», o gli asides del capitolo XL, e XXVIII), Moby Dick rimane nella sua essenza «un’epica in prosa sulla Baleneria», come osservò un altro critico dell’epoca. Epico è senz'altro quel modo di Melville per cui, se la sua lingua aspira a una «totalità», questa (per riprendere una distinzione lukacciana) è «degli oggetti» piuttosto che «delle azioni». La ’fantasia’ di Melville in questo antidrammatica si scatena, o piuttosto potremmo dire l’arpiona il segreto ideale dell’inclusione del tutto.
Ma tutto vuol dire proprio tutto, cioè tutte le cose che ci sono, tutto lo spazio, tutti i tempi, tutte le razze. È un sentimento di totalità come immensità che il romanzo comunica in modo semplice e immediato. È la vastità geografica dei mari, gli oceani; è la profondità temporale, gli oceani di storia che Melville attraversa con le sue citazioni, sì che possiamo incontrare nello stesso capitolo, e perfino nella stessa pagina, Perseo, Alessandro, Annibale, i crociati, Re, Zar, Sultani, eroi della Bibbia, semplici esploratori dei tempi andati. È così che si insinua nel libro, sottile, inquietante, la traccia di una certa megalomania paranoica, come se paradossalmente Melville incarnasse una hybris americana, presente fin dalle origini, ma mai forte come in quegli anni della metà del secolo diciannovesimo, quando l’America è al culmine del suo trionfante espansionismo, forte per mare e per terra, audace nell’addomesticare gli oceani e le praterie. L’America dovette allora sentirsi capace di tutto: ogni frontiera recedeva di fronte ai suoi cowboys, sia di mare che di terra.
Anche l’edipo americano pareva risolto: la madrepatria era stata «superata», i figli erano autonomi. Le lotte fratricide erano ancora lontane. Se mai ci fu un momento in cui il Nuovo Mondo poteva generare la sua epica fu questo. L’America dunque ebbe il suo Omero, e fu Melville.
Nessuno capì allora. Anni più tardi, sarà un poeta a insegnarci a vedere. Parlando appunto di Melville, Charles Olson dirà: «C’era in lui una spinta che lo attirava verso l’origine delle cose, il primo giorno, il primo uomo, i mari sconosciuti, il continente sepolto. Da questi luoghi passivi sprigionava la sua immaginazione... Cercava l’originario. Questa spinta gli dette il potere di trovare la parte perduta dell’America, il presente non ancora trovato, e creare un mito, Moby Dick, per un popolo di Ismaeli». Olson colpisce al cuore l’opera melvilliana. Ne individua la fonte generativa: senza errore la situa nell’attrazione verso l’origine. Il luogo statico dell’inizio diviene così movimento e passione. L’azione, in questo «epica» dello scrittore, è volta a «rifare» l’inizio : la scrittura è cosmogonia, passione e ricerca dell’evento originario. Ciò che si cerca, l'essenziale di ogni storia, sembra dire Melville, è il suo nucleo mitico. Così si dovrà intendere la quete di Achab, la sua feroce relazione all’enorme massa di distruzione che è connessa per lui alla potenza bianca della materia, che la balena incarna. Tutto per Achab si gioca in quell’incontro.
Tutto Melville vuole possedere e comprendere nel suo libro. Fa parte della sua quete di scrittore epico il voler ricostituire nel libro tutto il mondo, come se il «libro» fosse il libro mastro, o il catalogo in cui ogni cosa dovrà comparire, se esiste. Di qui lo spettro incredibilmente ricco e vario della ciurma del Pequod, che sembra voler rappresentare tutte le razze. Di qui la rappresentazione del mondo nell’insieme delle sue arti e mestieri. Moby Dick in questo senso è la favola americana del meltìng pot. Il canto delle opere e giorni dell’America industriale, nel pieno della sua affermazione. Pare addirittura di sentire, tra i vari suoni marini del romanzo, il rumore delle ferrovie, dei trapani, delle mine che brillano per scavare le miniere, dei telai meccanici, dei fili magnetici...
Perché a differenza di Omero, qui l’epos si applica non all’età del bronzo, ai suoi riti guerrieri e le sue cacce, ma riguarda il secolo decimonono e le sue attività.
Dell'epica Moby Dick presenta anche un altro tratto. In esso la narrazione si struttura intorno a due eroi: o meglio, un eroe e un anti-eroe, il proto e l’anti agonista. Come Don Chisciotte con Sancho Panza, Enkidu e Gilgamesh, l’azione qui è condivisa da Achab e Ismaele. In altre parole, stanno di fronte un monomaniaco primo attore, e un duttile deuteragonista, il quale si offre come controfigura per noi, portatore di una condivisa trama di discorsi e valori, che tessono il fondo, contro il quale si staglia l’Eroe per aggredirlo, ma che tuttavia tiene, sì da rendere possibile per lui la sua stessa azione distruttiva. Così Ismaele media tra l’Unico, e la comunità di eguali, cui il lettore si identifica. L’opera di Ismaele nel libro è appunto quella di offrire una misura «comune» dell’esperienza «eccezionale», cui con Achab siamo condannati. È Ismaele, ad esempio, che ci offre attraverso il «catalogo» una relazione non primitiva alla Balena, come quella di Achab, che ci vorrebbe tutti prigionieri del mito.
Lo sforzo tassonomico di Ismaele, quel suo volerci insegnare, «illuminare», riguardo il soggetto balena, è la libertà che egli vorrebbe donarci: perché nell’esattezza del catalogo si possa sistematizzare l’essenza stessa, misteriosa ed elusiva, della Balena Bianca, sì che le valenze magico-metafisiche del mostro marino cedano a più ragionevoli conoscenze.
È così che entra nel romanzo un altro motivo che lo struttura nel profondo, e che affiora nel modo in cui si legano in rapporto l’aperto, flessibile, impressionabile, ricettivo, simpatetico Ismaele e l’inflessibile Achab, feroce, spietato.
Nell’attrazione e distanza che si mantiene tra i due si insinua l’interrogazione segreta di Melville, la sua intima ossessione; che cos’è la democrazia? Quale il suo senso, la sua verità, la sua giustizia, la sua praticabilità, e soprattutto il suo destino? È la «questione americana». Achab non è certamente un democratico.
Per lui gli uomini sono «una folla di inutili duplicati». Se v'è un’eguaglianza che cerca è con gli Dei, non certo con gli uomini. Achab è un totalitario, per essenza un dittatore, come subito Ismaele si accorge. Ismaele lo teme, e ne subisce il carisma. Ma, è importante notarlo, l’attrazione che sente è per l’uomo ferito, che anche è Achab, il capo segnato nel corpo da una potenziale - o reale? - impotenza; mentre ha sguardo, e prende distanza (appunto per guardare), per il carattere «tremendo» di quella «centralizzazione» del potere, e per l’abuso di esso che Achab compie, obbligando un'intera nave a condividere la sua follia Spietato e grandioso, imponente nel suo sintomo maniacale paranoico, Achab sfrutta e manipola gli uomini che dovrebbe guidare in un’impresa, che dovrebbe servire la comunità umana. Perché la caccia alla balena è lavoro volto alla produzione dell’olio che sarà poi a sua volta impiegato a «illuminare» le città. E’ dunque in questo senso una 'quete culturale’, che Achab perverte ai propri particolarissimi scopi di vendetta. Quella di Achab è appetito, direbbe Hobbes, una sete di potere personale e illegittima.
Una delle domande che questo straordinario viaggio in cerca di una balena consegna all’esistenza di terra e cittadina della sua epoca, domanda forse rimasta ancor oggi inevasa, è se l’America non stesse, proprio in quel giro di anni, diventando e comportandosi come il folle capitano del Pequod. Nel qual caso, chi come Ismaele si trovasse in essa imbarcato, come potrà differenziarsi rispetto alla sua direzione?

“La talpa - il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987

Nessun commento:

Posta un commento