22.9.15

Tocqueville oggi (Mario Tronti)

Umberto Coldagelli conclude con uno spunto di riflessione teorico politica la sua Introduzione al Viaggio in America, 1831-1832, di Tocqueville (Feltrinelli, 1990). Conviene partire di qui per riproporre e giudicare il tema «Tocqueville oggi».
Periodici revivals tocquevilliani punteggiano la storia intellettuale degli ultimi decenni. Come ricorda R. Nisbet, alla fine degli anni Trenta, il pensatore parigino fu posto accanto a Nietzsche, Burckhardt, Taine, Weber, Ortega y Gasset, come profeta del totalitarismo moderno e della sua particolare natura di massa, così come negli anni Cinquanta fu messo sulla scia del giovane Marx come anticipatore dell'affluent society e delle sue varie forme di alienazione. Come sostiene G. Lipovetzsky, il cosiddetto nuovo individualismo lo ha ripresentato come l’espressione postmoderna di un esito estremo delle società democratiche attuali.
Come racconta Baudrillard, oggi più che centocinquanta anni fa ritorna il paradosso di Tocqueville di un universo americano, che tende contemporaneamente all’assoluta mediocrità e all’originalità assoluta: «un universo geniale grazie allo sviluppo irrefrenabile dell’uguaglianza, della banalità e dell’indifferenza». Osserva e, appunto, conclude Coldagelli: «Non è detto che il vezzo di piegare "l’immaginazione sociologica" di Tocqueville al succedersi delle mode ideologiche non riservi ancora qualche sorpresa. Già si sente evocare il suo nome da parte di coloro che, in questi tempi di trionfalistica e definitiva identificazione tra capitalismo e democrazia, tentano di far riemergere il pigro e ricorrente sogno di un’ennesima "fine della storia"».
Tocqueville, il classico, continua ad abitare tra noi come un contemporaneo. E per sfuggire alla tentazione di attualizzare il discorso, o peggio il messaggio, della sua opera, non basta mettere a nudo le «rughe» del personaggio, come bene ha fatto Losurdo sull’Unità del 22 dicembre scorso, e cioè aristocraticismo, sciovinismo, colonialismo, ecc. E’ bene prenderla, quell’opera, nei suoi punti critici, nelle domande «inattuali», che Cafagna, partendo da Raymond Aron, riformula così: come è divenuta possibile la democrazia? come è divenuta impossibile l’aristocrazia? E dunque, come si è data «America» e come si è data «Rivoluzione»? Due luoghi, questi, dello spirito del tempo: uno fisico, quasi natura, un territorio, un modo di vivere, cioè uomini, un popolo, con uno stile di vita, appunto l’America di Tocqueville; l’altro, storico, un passaggio, che ha cause, sviluppi e conseguenze, adattamento «dello stato politico allo stato sociale, dei fatti alle idee, delle leggi ai costumi», appunto la rivoluzione in Francia.
In mezzo, luogo naturale e storico insieme, sta la democrazia, come la vede e come la prevede lo storico delle libertà. Rivoluzione americana è termine improprio, per gli stessi motivi per cui Hannah Arendt la considera l’unica trasformazione politica eticamente apprezzabile. Rivoluzione è in Francia. Democrazia in America. Ecco una guida per seguire i «viaggi» di Tocqueville e forse una via per arrivare a un «per la critica», in senso marxiano, della democrazia politica.

Tirannia di uno, tirannia dei più
Fine gennaio 1835, lettera a Louis de Kergorlay, citatissima ed essenziale: non c’è via di mezzo tra un governo democratico e il governo di uno solo. Col tempo si arriverà o all’uno o all’altro. Questo secondo polo dell’alternativa non si fa desiderare, perché non ci sarebbero più limiti alla tirannia. Il primo non si fa amare, ma tra i due mali è il minore. In fondo si tratta di scegliere - come dirà meglio nella seconda Democrazia in America - tra la tirannia di uno e la tirannia dei più. La società è «nella situazione di un uomo che ha una ferita al braccio: la cancrena è là e avanza. È indubbiamente molto doloroso farsi tagliare il braccio. L’operazione può essere mortale. Ma non è meglio vivere monchi che morire con tutte e due le proprie braccia?».
Lettera a Eugène Stoffels, 21 febbraio 1835: ho voluto mostrare che cos’è ai nostri giorni un popolo democratico. «A coloro che si sono fatti una democrazia ideale, come sogno brillante che credono di poter facilmente realizzare, ho inteso mostrare che avevano rivestito il quadro di falsi colori... Agli uomini, per i quali la democrazia è sinonimo di sconvolgimento, di anarchia, di spoliazione e di omicidi, ho cercato di mostrare che la democrazia poteva arrivare a governare rispettando i patrimoni, riconoscendone i diritti, risparmiandone la libertà e onorandone le credenze». A tutti ho preteso dimostrare che, qualsiasi fosse l’opinione di ciascuno, non era più tempo di deliberare, che la società camminava e trascinava tutti alla scelta tra mali ormai inevitabili. Forse la volontà di Dio non era quella di riunire una grande quota di felicità su alcuni e di avvicinare alla perfezione un piccolo numero di uomini. «Dopo tutto, la volontà di Dio era quella di diffondere una felicità mediocre sulla totalità degli uomini».
Io credo che sull’edificio della democrazia, visto che ormai di un monumento si tratta, c’è da fare prima di tutto un’opera di restauro della facciata. Il tempo vi ha accumulato sopra fumo e detriti. Utile questo racconto dal vivo dei cahiers tocquevilliani, perché ci ridà l’originale. La democrazia come nasce in America è la democrazia moderna. Scarnificare ciò che appare per risalire a ciò che è, impone infatti un lavoro provvisorio di pulizia mentale. Nella politica quotidiana c’è questa impressionante indipendenza delle parole dai concetti, del discorso dal pensiero. Solo il dire nulla fa eco, mentre pensare qualcosa fa intorno il silenzio. E’ più facile dire: sta bene così, che proporsi di cambiare le cose.

Pessimismo e democrazia
Prendiamo un problema. Il governo democratico è sempre stato collocato nell’ambito dell’ottimismo progressista. Il governo di uno solo nell’ambito del realismo conservatore. Che cosa succederebbe se cominciassimo a coniugare pessimismo e democrazia? La scelta appunto oggi non è tra bene e male, ma tra un male minore e un male maggiore. Fer questa via si otterrebbe di veder uscire dall’orizzonte la democrazia come valore e magari tornerebbe praticamente utilizzabile la democrazia come metodo, tecnica procedurale che non ha nulla a che vedere con le leve del cambiamento. Uno stare di mélancolie démocratique, come direbbe Pascal Bruckner, che così lo esprime. Poiché tutti i tentativi di stabilire il paradiso sulla terra si sono chiusi con l’avvento reale dell’inferno, ci siamo rassegati al purgatorio».
Nulla di più lontano dall’individuo Tocqueville dell’«uomo democratico», nulla di più estraneo al suo pensiero dell’«état social démocratique». Eppure erano queste le realtà che vedeva venire avanti, come una forza della natura, dall'interno della storia. «La democrazia - scriverà ancora a Kergorlay dall’America - mi pare ormai un fatto che un governo può avere la pretesa di regolare, ma non di fermare». Questa frase che fa la gioia del neostoricismo progressista e ottimista va letta insieme all’altra, che sta nella Démocratie del ’40 e che riassume il senso degli influssi della democrazia «sui costumi»: «la democrazia allenta i vincoli sociali, ma rinforza i vincoli naturali; avvicina i membri di una famiglia e divide i cittadini». In termini marxiani, unifica il bourgeois al bourgeois, separa il citoyen dal citoyen, integra la parte privata dell’homme en general, aliena la parte pubblica.
Coldagelli accosta quelle due frasi tocquevilliane per impostare un discorso essenziale. Tra le due Démocratie c’è una frequentazione intellettuale di Tocqueville con Pascal, Montesquieu, Rousseau. L’esperienza del viaggio americano si fa qui pensiero storico sulla democrazia politica. L’idea di rivoluzione democratica si fa «ineluttabile e inquietante destino del mondo cristiano», che dal fondo dei secoli emerge alla superficie del moderno. La spinta egualitaria si rivela una forza che tende a soppiantare vincoli sociali storici per impiantare vincoli sociali naturali. Esattamente il contrario di quanto comunemente si pensa circa il rapporto tra democrazia moderna e premoderna. Come al solito, il critico conosce meglio il suo oggetto che l’apologeta. Anche perché qui la contraddizione dell’aristocratico Tocqueville è la contraddizione stessa dell’uomo democratico.
Scrive Coldagelli: «Al crollo degli antichi vincoli aristocratici non segue di necessità una sociabilità naturalmente superiore, subentra anzi il rischio di una separatezza individualistica … E’ la contraddizione per la quale la società aristocratica, che gerarchizza e particolarizza gli uomini, tuttavia li fa vivere organicamente insieme ed esalta gli spiriti superiori, mentre la società democratica, che pur si fonda su un'idea universale dell'uomo, separa i cittadini, predisponendoli a una mediocre acculturazione tanto diffusa quanto utilitarista.»

Alienazione della politica
E se rileggessimo Tocqueville come critico della democrazia liberale? Forse scopriremmo la sua vera attualità. Perché questo è il punto vero di esercizio della critica. Il pericolo infatti non è la democrazia totalitaria della società di massa, ma la «democrazia della vita quotidiana» dell’individuo naturale asociale, e dunque non certo nel senso in cui ne parlava il vecchio Lukàcs. In realtà, la democrazia moderna non tende a instaurare la tirannia della maggioranza, funziona per restaurare sempre di nuovo la libertà dell’homo oeconomicus, contro ogni istanza di libertà veramente politica, libertà cioè di persone politiche, non eguali o diseguali, ma differenti. Il paradosso della democrazia moderna è che l’uomo democratico è l’individuo non politico. Democratizzazione è spoliticizzazione. L’état social démocratique compare a questo punto come lo stadio estremo di alienazione della politica dal cittadino, lo Stato sociale di diritto degli interessi organizzati.
Non basta allora occuparsi del restauro della facciata. Bisogna occuparsi degli interni. Una volta riportato ciò che appare a ciò che è, come passare a risistemare il complesso dell’edificio? Con quale progetto teorico? E radicalizziamo ancora la domanda. Questa democrazia reale, questa che è ancora lecito e opportuno chiamare «democrazia in America», lascia ancora spazi al pensiero di un’utopia democratica? In che modo si può continuare a pensare, in forma praticamente credibile, un’altra idea di democrazia? Domande a cui si deve cercare una risposta, senza che questa risposta sia definitiva.
Anche Tocqueville si poneva le sue domande nell’Introduzione alla Démocratie del ’35. Ad alcune possiamo rispondere noi per lui. Si chiedeva: «C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalismo e aver vinto i re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi?». Sì, qualcuno a questo punto lo può pensare. «E’ possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?». Sì, è possibile.
La rivoluzione democratica non ha più nulla di «irresistibile», al pari di tutte le altre rivoluzioni. E’ proprio il nesso di rivoluzione e democrazia che si è spezzato, violentemente e forse senza rimedio. E non solo, come si crede, sul corpo di un esperimento di trasformazione della società, ma qui da noi, nel progetto di un governo alternativo di questa società. Meglio saperlo, prima di mettersi a coltivare, in questo freddo della storia, nuove illusioni democratiche. 25 ottobre 1831, tra Filadelfia e Baltimora, Tocqueville annota nei suoi cahiers per il disincanto di noi posteri: «Il popolo ha sempre ragione, questo è il dogma della Repubblica, come: il re non sbaglia mai, è la religione degli stati monarchici. È un grosso problema quello di sapere se uno è più falso dell’altro; ma ciò che è ben sicuro è che né l’uno né l’altro sono veri».


“il manifesto”, 8 gennaio 1991

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