25.9.15

Dall’Umbria alle Canarie e ritorno: una vita (Eros Barone)

Il mio amico e compagno Eros Barone, ha scritto questo intenso ricordo del fratello Carmelo, recentemente scomparso. E' una bella storia italiana che volentieri offro alla lettura di chi vorrà profittarne. (S.L.L.)
Tenerife
Lontane migliaia di chilometri dal Vecchio Continente, vicine all’Africa, le Canarie sono state raggiunte, nei secoli, dai popoli più diversi, che vi hanno lasciato molteplici tracce: gli aborigeni – i ‘Guanches’ dall’alta statura, dalla carnagione chiara e dai capelli rossi , i fenici, i greci, i cartaginesi, i romani, gli arabi, i genovesi, i castigliani, i portoghesi, gli inglesi, gli irlandesi, i francesi, i corsari barbareschi, gli olandesi, i tedeschi, gli indiani.
Tuttavia, gli abitanti delle Canarie hanno, rispetto ad altre isole, un vantaggio che i paesi latini dimostrano spesso di avere: una specie di signorilità che non si lascia dominare dalla sindrome insulare. In queste isole che, soprattutto al loro interno, offrono una bellezza intensa e varia, ci si sente, nonostante il paesaggio inedito e sorprendente, in Europa, e non si pensa che, a poca distanza, c’è l’Africa, il deserto, un altro mondo. Le isole e le coste sono spesso meno isolate, meno chiuse in se stesse, dei luoghi situati nel cuore della terraferma. A guardare l’Oceano Atlantico dalle Canarie, se viene infatti in mente, per un verso, quel “mare unico e immenso”, che costituisce la terrificante ipotesi che il grande navigatore formula, per poi scartarla, nel “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Gutierrez”, che fa parte delle «Operette Morali» di Giacomo Leopardi, vien fatto anche di constatare, per un altro verso, che proprio il mare, che non soltanto divide ma anche unisce, salva spesso dalla soffocante chiusura.
Occorre poi aggiungere che il mare, in spagnolo, è maschile, come in italiano, ma coloro che hanno a che fare concretamente, fisicamente con lui (pescatori, naviganti, appassionati di arti nautiche), lo chiamano “la mar”, al femminile, forse per dare rilievo a quella misteriosa essenza femminile, simbolo di armonia e di conflitto, di piacere e insieme di sofferenza, che il mito greco attribuisce alla nascita di Venere dalla spuma del mare. La storia delle Canarie, e la stessa letteratura isolana, è tutta pervasa dal senso del mare: non solo la memoria delle antiche imprese dei navigatori, da san Brandano con la sua ottava isola introvabile a Cristoforo Colombo e alle battaglie navali con Drake e Nelson, che vi lasciò il suo braccio, ma il mare come idea e sentimento generale della vita, che trasforma e assimila anche ciò che viene dalla terraferma.
Famose per le spiagge, spesso rovinate da una speculazione edilizia senza freni, le Canarie rivelano una grande bellezza soprattutto nel paesaggio vario come quello di un continente, nei colori delle piante, specialmente nell’azzurro della jacaranda e nel rosso del tulipero del Gabó o nei grandiosi crateri vulcanici del Teide o ancora nei maestosi faraglioni degli Acantilados de los Gigantes. Personalmente ricordo che mi colpirono, nel sud di Tenerife, un impressionante parallelepipedo roccioso, guardando il quale si pensa ad una sorta di massiccia montagna metafisica, e il miracoloso drago di Icod, simbolo delle Canarie, un albero pluricentenario che sembra riassumere in sé un passato fatto dei millenni delle ere geologiche e un avvenire nel quale il nostro ‘io’ è come un insetto imprigionato in un fossile.
Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, sin dalla prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere. Per vedere un luogo occorre rivederlo, e questa, ne sono certo, è stata l’esperienza vissuta da mio fratello Carmelo, il quale ha realizzato nel corso della sua vita un originale pendolarismo tra l’Umbria, in cui era nato e in cui affondano le radici antiche e recenti della nostra famiglia per via dei nonni materni e di sua figlia Jaiza, e Santa Cruz de Tenerife, dove egli, conosciuta colei che sarebbe diventata sua moglie e che gli avrebbe dato un figlio ed una figlia, decise, quasi mezzo secolo fa, di porre fine alla sua carriera di ufficiale della marina mercantile italiana e di fare delle Canarie la sua seconda patria. Il cuore azzurro del mondo e il cuore verde dell’Italia si collegarono pertanto l’uno all’altro nella scelta audace ed anticipatrice che compì mio fratello Carmelo, autentico figlio di una civiltà mista, marittima e rurale, insulare e continentale, latina e atlantica.
Così, nel corso dei decenni che seguirono a quella scelta, Carmelo non dimenticò mai l’Italia e il patrimonio di affetti di cui essa era il simbolo, pur vivendo e lavorando nelle Canarie, così come, pur denunciando gli effetti rovinosi dell’aggressiva economia turistica che caratterizza l’arcipelago, non mancò mai di battersi, usando con efficacia l’arma del giornalismo, per salvaguardare l’integrità e gli equilibri dei siti più caratteristici di un ecosistema delicato, dando prova di una consapevolezza, di una tenacia e di una preveggenza, che solo l’amore più profondo ed appassionato per quel territorio e per quella popolazione poteva ispirare. E il simbolo più pregnante di questa passione mai spenta, che ha accompagnato mio fratello durante tutta la sua vita, è stato la donna canaria, ad un tempo madre, sorella e moglie, da lui celebrata nelle sue poesie unendo e intrecciando le connotazioni sacrali di origine divina a significati sentimentali e morali di impronta schiettamente umana.

Mio fratello Carmelo amava ripetere, per fornire una definizione e fare un bilancio della sua umana vicenda, il titolo di un libro di Pablo Neruda: «Confesso che ho vissuto». Vorrei perciò ricordarlo richiamando questo titolo così denso ed emblematico, possibilmente a ciglio asciutto, così come si è serbato il suo sino alla fine, dopo un’epica lotta contro un male che non dà scampo sostenuta in mezzo ad una sequela di avversità che gli hanno sottratto gli affetti più preziosi. E vorrei sottolineare non solo la nobiltà della sua figura, ma anche il coraggio con cui ha affrontato quell’appuntamento che il destino ci fissa senza che noi lo abbiamo mai chiesto. Egli ora riposa nella pace di un cimitero campestre situato su una delle dolci e malinconiche colline umbre, vicino ai nonni da lui tanto amati. Come fratello vorrei soltanto soggiungere che ha lasciato a tutti coloro che gli sono stati vicini sino alla fine, non meno che a coloro che non hanno potuto esserci ma che lo hanno conosciuto, un insegnamento importante: il segreto del morire è vivere negli altri.

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