22.9.15

Donne e scienza. Le sorelle di Ipazia (Franco Carlini)

Emilie du Chatelet
«La ricerca delle verità astratte e speculative, dei principi e degli assiomi nelle scienze, nulla di ciò che tende a generalizzare le idee è di competenza delle donne. Tutti i loro studi devono riportarsi alla pratica: sta a loro applicare i principi che l’uomo ha scoperti, come sta a loro di fare le osservazioni che conducono l’uomo a stabilire dei principi». Una tale affermazione, dovuta a Jean Jacques Rousseau, non è che una delle molte, gratuite e assai ideologiche giustificazioni che, nel corso dei secoli, il mondo della cultura maschile ha usato per tenere ben chiusa la porta alle donne. Una discriminazione robusta ed efficace se la gloriosa École Polytecnique di Parigi, fondata nel lontanissimo 1794, solo nel 1972 ha aperto le iscrizioni alle donne. Ma una discriminazione anche assai «convincente», fatta propria persino da alcune donne di scienza emancipate. È il caso, ad esempio, dell’inglese Mary Fairfax Somerville (1780-1872) che diceva di sé: «sono perseverante e intelligente ma non geniale, quella scintilla del cielo non è concessa al mio sesso, noi apparteniamo alla terra, siamo terrene».
Mary era femminista, politicamente spregiudicata, intellettualmente vivacissima. A lei si devono alcuni libri di scienza importanti tra cui un famoso Physical Science, che conobbe una decina di edizioni. E a lei venne affidata la traduzione in inglese dell'ardua Meccanica Celeste di Laplace, un’opera che non più di una dozzina di matematici in tutta l’Inghilterra erano in grado di capire. In qualche modo si trattava dunque di una eccezione positiva alle regole del mondo della scienza maschile. Persino di una eccezione fortunata, come attesta il suo amico Charles Lyell, che scrisse di lei: «Se fosse stata sposata a Laplace o a qualche altro matematico, non avremmo mai sentito parlare del suo lavoro. L'avrebbero inglobato in quello del marito e diffuso come suo». Tuttavia Mary aveva in qualche modo introiettato i giudizi alla Rousseau, pur avendo combattuto tutta la vita perché le donne potessero avere il loro posto e la loro dignità.
Le citazioni fin qui utilizzate provengono da un volume pubblicato di recente dagli Editori Riuniti e dedicato appunto alle donne nella scienza, dalle origini, ovvero dalla preistoria, fino a madame Curie: Margaret Alic, L’eredità di Ipazia, trad. di Daniela Minerva, Editori Riuniti. L’autrice è una studiosa americana, Margaret Alic, specialista in biologia molecolare, ma anche programmatrice radio di musica jazz e militante nel movimento Scienza per il Popolo. La traduttrice, cui si deve anche la prefazione, è Daniela Minerva, giornalista e piacevole divulgatrice scientifica.
Il volume può essere letto indignandosi per le molte affermazioni ignoranti e per le costanti discriminazioni e resistenze che la scienza ufficiale oppose alla partecipazione delle donne. Come non saltare sulla sedia, ad esempio, leggendo questa frase del famoso commediografo Artur Strindberg: «Una femmina professore di matematica è un fenomeno pernicioso e sgradevole, persino si potrebbe dire una mostruosità; e il fatto che sia stata invitata in un paese dove ci sono così tanti maschi matematici di gran lunga superiori può essere spiegato soltanto con la galanteria degli svedesi verso il sesso femminile». La brillante affermazione venne fatta in occasione della cattedra di matematica offerta dall’università di Stoccolma a Sofja Vasilevna Kovalevskaya (1850-1891). una russa avventurosa, una «ragazza nichilista», e una studiosa di tutto rispetto che, pochi anni dopo, nel 1889, avrebbe vinto il Prix Bordin messo in palio dall’Accademia francese delle Scienze per la soluzione di un problema di meccanica che aveva già respinto Eulero. Lagrange e Poisson.
La chiave di lettura indignata naturalmente è più che legittima ma forse è anche riduttiva. Più interessante invece, tra i molti nomi e le molte biografie di donne di scienza che l’autrice accumula, trovare alcuni tratti distintivi e alcune forme specifiche di discriminazione. Una di queste, poco conosciuta ma assai diffusa, è quella dell’occultamento.
Anche chi si occupa da anni di scienza sarà stupito, leggendo il libro di Alic, dal numero di donne che sono state attive nei più diversi campi scientifici e la cui presenza tutti ignoravamo: a fianco di pochi personaggi piuttosto noti, come Marie Lavoisier e Marie Curie, ecco emergere come collaboratrici o addirittura guide dei grandi uomini di scienza, donne il cui nome però non è mai passato agli annali.
Si dice «monade», ad esempio, e si pensa a Leibniz, ignorando del tutto che il filosofo prelevò pari pari quel termine dal saggio Principles of the most ancient and modern philosophy, che Francis von Helmont gli aveva procurato. Sulla copertina di quel volume non compariva alcun nome, sebbene la prefazione l’attribuisse a «una certa Contessa inglese, una Donna dotta ben oltre il suo sesso, molto ben istruita nelle lingue greche e latine, straordinariamente dotata in tutte le filosofie». Era Lady Anne Finch Conway (1631-1679), una donna dimenticata dalla storia della scienza. Ed è una dimenticanza tanto più curiosa perché, come Alic osserva e documenta, «spesso le donne sono state scienziate riconosciute e rispettate nella loro epoca, ma ignorate e screditate dagli storici».
E’ piuttosto facile immaginare gli ostacoli, le prese in giro, le barriere altissime che tutte le donne hanno incontrato affacciandosi al mondo della scienza (e il libro le documenta puntigliosamente: dal divieto di accesso alle biblioteche, alla necessità di scrivere i propri saggi con pseudonimi, alla impossibilità di seguire i corsi universitari). Meno noto invece è il fatto che non sempre e non ovunque le donne di scienza sono state respinte. Talora invece ricevettero crediti e riconoscimenti dai loro contemporanei. Ma anche in questi casi, subito dopo, veniva immancabile l’oblio, quasi a confermare che si trattava pur sempre di eccezioni straordinarie, destinate a non far regole, né storia.
Così il mostruoso calcolo effettuato nel 1758 dall’osservatorio astronomico di Parigi per determinare l’imminente passaggio della cometa di Halley è di solito attribuito al solo Alexis Clairaut. Eppure egli stesso scriveva, assai onestamente: «per sei mesi calcolammo dall’alba al tramonto, talvolta persino durante i pasti. L’aiuto di M.me Lepaute fu tale che senza di lei mai sarei stato in grado di portare a compimento un’impresa così colossale in cui fu necessario calcolare la distanza dalla cometa di ciascuno dei due pianeti Giove e Saturno separatamente per ciascun grado successivo per 150 anni».
Nicole Reine Etable de la Briere era moglie dell’orologiaio di corte, monsiuer Lepaute, e con lui aveva condotto studi assai accurati sulle oscillazioni dei pendoli, facendosi la fama di essere uno dei migliori «calcolatori astronomici del tempo».
Era stato lo stesso Clairaut a chiedere il suo aiuto, ma poco dopo negherà tutto, rimangiandosi l’eccessiva sincerità; così, ancor oggi, in un libro di storia della matematica appena pubblicato in italiano, possiamo leggere che «la meccanica newtoniana e i suoi splendidi successi in astronomia, in particolare la previsione, fatta da A. C. Clairaut, del ritorno della cometa di Halley, con un errore inferiore al mese, avevano notevolmente impressionato tutti gli ambienti intellettuali europei, persino quelli di letterati come Voltaire, che non capiva assolutamente nulla di matematica» (Jean Dieu-donnè. L’arte dei numeri, Mondadori 1989). In una frase sola il famoso matematico francese riesce a trascurare due donne che con la questione di Newton e delle comete c’entrano assai: la suddetta madame Lepaute e Gabrielle-Emilie le Tonnelier de Breteuil, marchesa du Chatelet-Lomont, in breve Emilie du Chatelet (1706-1749), compagna di Voltaire per lunghi anni.
Proprio a lei si deve l’introduzione in Francia di Newton, in contrapposizione al cartesianesimo dominante. E sotto la sua guida e ispirazione iniziò la carriera scientifica l’astronomo Clairaut. Emilie du Chatelet scrisse una volta a Federico di Prussia: «Giudicatemi per i miei meriti o per le mie mancanze ma non guardatemi come una mera appendice di questo gran generale o di quel celebre studioso, di quella stella che brilla alla Corte di Francia o di quel famoso autore. Io sono una persona completa a pieno titolo responsabile solo di me stessa per tutto ciò che sono ciò che dico e ciò che faccio». Morì di febbre puerperale mentre finiva di tradurre in francese i Principia di Newton. Di lei Voltaire scrisse :«Fu un grande uomo, il cui solo difetto fu di essere una donna. Una donna che traduceva e spiegava Newton (..) in una parola, davvero un grande uomo». Certo voleva essere un grande segno di omaggio, ma chissà se Emilie l’avrebbe apprezzato.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1989

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