Michel Leiris fotografato da Man Ray (1930) |
«Ci sono momenti che si
possono chiamare di crisi e che sono i soli che contino in una vita.
Sono momenti in cui il fuori sembra rispondere all'improvviso
all'intimazione che gli lanciamo dal dentro, in cui il mondo esterno
si apre perché tra lui e il nostro cuore si stabilisca una subitanea
comunicazione. Ho alcuni ricordi di questo genere nella mia vita e
tutti si collegano ad eventi apparentemente futili e, se vogliamo,
gratuiti».
Così scrive il
ventottenne Michel Leiris sul quarto numero di “Documents”, la
rivista fondata in quello stesso 1929 dall'amico Georges Bataille,
della quale è redattore. Sta scrivendo di uno scultore suo coetaneo
che nessuno conosce, un artista le cui figure gli sembrano evocare,
appunto, «quei minuti inauditi che ci fanno delirare». L'artista si
chiama Alberto Giacometti, e con quelle poche righe (che si leggono,
presentate da Catherine Maubon, nel numero 11 di «Riga» a lui
dedicato nel '96) inizia un'avventura, quella di Leiris scrittore
d'arte (ché «critica», davvero, si fatica a chiamarla), da
indicare forse come l'episodio maggiore nella lotta con l'angelo che
la letteratura moderna ha intrattenuto con le immagini dell'arte (si
veda la bella monografia di Stefania Zuliani: Michel Leiris, lo
spazio dell'arte, Liguori 2002).
Cerimoniali
rigorosi
I suoi artisti d'elezione
resteranno artisti-lottatori (Masson, Picasso, soprattutto Bacon) e
in generale una lotta - contro la sterilità, il silenzio, in
definitiva la morte - sarà sempre per lui la scrittura. Una lotta
all'ultimo sangue, che tortura oscenamente chi vi si cimenta, ma
regolata da una serie allucinatoria di contraintes: tali da
trasformarla in un rituale, un cerimoniale oscuro quanto rigoroso.
Non a caso Leiris potrà paragonarla - nella premessa alla sua prima
opera compiuta, Età d'uomo - alla tauromachia. Scrivere vuol
dire ferire e farsi ferire; aprirsi al pericolo dell'esistenza ma
anche su di essa avventarsi con fredda ferocia, con panneggi curiali
e lame corrusche: l'eros, in Età d'uomo, verrà associato a
un «orrore sacro», un'«impressione di pietrificazione e di membra
fracassate». Ancora una volta sono state delle immagini-reagente,
penetrate a spaventosa profondità oltre gli schermi della coscienza,
a fissare una volta per tutte questo correlativo micidiale: la
Giuditta e la Lucrezia di Cranach, a partire dalle quali Leiris
organizza il racconto della propria esistenza - nel libro scritto fra
il '30 e il '35 ma pubblicato solo nel 1939 - come fantasmagoria
ossessiva del complesso di castrazione.
Quella degli anni Trenta
è la svolta decisiva. Sino all'incontro con Bataille, Leiris è
stato un surrealista di stretta osservanza. I suoi primi, fragili
libelli (Simulacre, Glossaire, Le Point Cardinal,
sino a un romanzo surrealista in piena regola, Aurora,
pubblicato solo nel '46) sono mannelli di pochi versi o esili prose
oniriche alle quali attribuiva «un valore d'oracolo» - ricorda in
Età d'uomo - costruendosi attorno un circolo allucinatorio
che lo conduce al limite della follia. Due le vie d'uscita: da un
lato la psicoanalisi, usata non più come tavolozza di effetti
speciali ma come terapia concreta, dall'altro la più topica delle
«fughe», nell'Altrove africano. Che però, col suo tipico
oltranzismo rigoristico, affronta con studi severi all'Institut
d'Ethnologie, sotto la guida del grande Marcel Mauss, sino ad
aggregarsi nel '31, in qualità di secrétaire-archiviste,
alla grande spedizione di ricerca Dakar-Gibuti.
L'incontro
dell'etnografia al suo massimo livello scientifico, e delle arti
moderne al loro massimo grado di provocazione, era stato del resto
l'intento di Bataille con Documents. E alla rivista avevano
collaborato, fianco a fianco, i più agguerriti transfughi del
movimento surrealista e i più brillanti ricercatori dell'Institut.
Come ha scritto James Clifford (in I frutti puri impazziscono,
Bollati Boringhieri 1993), sin dal titolo la rivista si poneva come
«una sorta di esposizione etnografica d'immagini, testi, oggetti,
etichette, un divertito museo che raccoglie e, nello stesso tempo,
riclassifica i suoi esemplari». L'insegna è quella dell'eteroclito:
«collezione perversa» più somigliante al vecchio Trocadéro
(che i parigini si divertivano a visitare come museo d'arte varia, se
non proprio baraccone da fiera) che al nuovo Musée de l'Homme
del Palais de Chaillot, concepito con criteri rigorosamente
scientifici per l'Expo del '37 (dove dall'anno seguente Leiris trovò
impiego come ricercatore, restandovi sino al '71).
Un
«récit» eversivo
Condotta dal maggior
allievo di Mauss, Marcel Griaule, la spedizione Dakar-Gibuti viene
oggi ricordata come la fondazione dell'antropologia moderna. Per
Leiris, invece, fu un mezzo disastro. Il resoconto di quel viaggio -
uscito a caldo da Gallimard col titolo L'Africa fantasma -,
che doveva essere insieme il vero esordio letterario e l'inizio d'una
brillante carriera accademica, riuscì - sintetizza Clifford - «un
mostro». Uno zibaldone di minutissime annotazioni private, racconti
di sogni, brandelli di racconto: per cinquecento pagine Leiris ci
parla, anziché degli africani, di sé. Tanto eversivo come récit
etnografico che la dedica, all'«amico Marcel Griaule», l'amico
pretese venisse cancellata a partire dalla seconda edizione: fu
allora che le strade dell'avanguardia e quelle dell'antropologia si
divisero (anche se a ben vedere quel testo di Leiris anticipa molta
antropologia contemporanea: dall'autoanalisi partecipativa alla
descrizione «densa», o «intensiva», dei fenomeni osservati).
Sta di fatto che è col
libro-monstre del '34 che Leiris incontra quelli che saranno il suo
argomento (lo sguardo ossessivamente trincerato sul proprio io) e il
suo metodo di base (di tipo archivistico, basato su schede - fiches
- variamente ricombinate). E sarà facendo ricorso al lessico
dell'antropologia (Rudolf Otto) e della psicoanalisi (il Freud della
Psicopatologia della vita quotidiana) che nel '38 dà insieme
il suo maggior contributo a un'intrapresa che lo vede tiepido
partecipante (il Collège de Sociologie di Bataille e Roger
Caillois) e la pietra d'angolo di quella che, di lì in avanti,
diverrà l'opera della sua vita.
La conferenza tenuta l'8
gennaio 1938 sul Sacro nella vita quotidiana contiene infatti
le «regole» di quella che si chiamerà La Règle du jeu: la
ricerca «di certi fatti di linguaggio, di parole ricche in sé di
prolungamenti, o di parole mal ascoltate o lette male che scatenano a
un tratto una sorta di vertigine nel momento in cui ci si rende conto
che non sono ciò che si era fino allora creduto» (l'ouverture di
Biffures - titolo che evoca insieme la «cancellatura» e la
«biforcazione» - varierà musicalmente l'eco della pseudo-parola
reusement, pronunciata nello scoprire che un certo soldatino di
piombo fatto cadere per maladresse, heureusement, «fortunatamente»
non s'era rotto). Parole-«chiave» che «aprono» il linguaggio e
l'esistenza: parole-«breccia» che «lasciano passare un mondo di
rivelazioni».
Perforazioni laser
I quattro densissimi
volumi della Règle du jeu, ai quali Leiris attenderà dal
1940 al 1976 (il primo, Biffures, esce nel '48; i successivi,
Fourbis, Fibrilles e Frêle Bruit, a distanza
d'un decennio circa l'uno dall'altro) rispondono appunto a questo
metodo. Le brecce (Brisées s'intitolerà, nel '66, la sua
prima ed eteroclita e splendida raccolta di saggi) nell'esistenza, i
momenti di crisi inseguiti già nel '29, sono ricercati ora nel
tessuto vivente della lingua. La vita stessa è in sé scrittura, e
non solo perché da un certo momento in avanti (con gioco di specchi
che può ricordare L'ultimo nastro di Krapp beckettiano) le cose
della vita si riducono quasi solo all'attività di raccontarla (è
questo per esempio il tema di Fibrilles, molto più che il tentato
suicidio del '57); ma proprio perché gli atti di vita seguono sempre
di più «gli àpriti-sesamo, le perforazioni laser compiute dalle
catene dei significanti» (come dice un coinvoltissimo Zanzotto).
Quel vissuto che in Età
d'uomo era stato scomposto e ricomposto secondo una logica
«figurativa», di matrice sostanzialmente tematica, ora viene
sussunto a una credenza «cratilica» (quella che, smentendo il
principio saussuriano dell'arbitrarietà del linguaggio, connette
causalmente i significati ai significanti) ed esplode - è ancora
Zanzotto a parlare - «attraverso paronomasie, sinestesie, omonimie,
intarsi, incastri, cicatrizzazioni, disseminazioni, inseminazioni
(...) come in un eterno caleidoscopio». Del resto, già ai tempi di
Documents aveva scritto Leiris che «non solo il linguaggio,
ma tutta la vita intellettuale si fonda su un gioco di trasposizioni,
di simboli che si possono definire metaforici». Lacan è lì a un
passo.
Intermittenze del
cuore
Un caleidoscopio, dice
Zanzotto della Règle du jeu (a un «fotomontaggio» aveva
paragonato il suo autoritratto il Leiris di Età d'uomo). Una
volta Roland Barthes (nella conferenza del '78 raccolta nel Brusìo
della lingua) ha usato un'immagine simile per dar conto della
«disorganizzazione» del Tempo nella Recherche proustiana. E
davvero Leiris pare il più conseguente continuatore novecentesco
della lezione di Proust. Gli stessi momenti di crisi, i
momenti-breccia, assomigliano da vicino alle intermittenze della
Recherche (in particolare a come venivano lette dagli
esistenzialisti).
Una lezione che viene da
Leiris estremizzata e, insieme, clamorosamente tradita. Non solo
l'ordine temporale viene bandito dall'autobiografia, costruita
secondo correspondances musicali e insomma poetiche, ma la stessa
Règle du jeu sembra prendere le mosse dalla conclusione del
Temps retrouvé: laddove Marcel inciampa sul pavé di Palazzo
Guermantes, scatenando l'ultima intermittenza del cuore, è per una
maladresse del piccolo Michel se cade il soldatino che innesca
il vortice di Biffures.
Flebili rumori
Non solo: la sintassi
della Règle du jeu
abbandona la plastica, olimpica, bizzarramente severa freddezza di
Età d'uomo per farsi «proustiana», con «periodi ampi che
coinvolgono tutto confortevolmente nelle loro lanose o lattee
armonie, periodi che entrano nel dolcemente denso, nel prelibato,
nella memoria-colata in cui emergono di continuo bollicine o chicchi
sapidissimi, o biscottini fatati» (ancora Zanzotto, ovvio).
Eppure, lo si diceva, da
Leiris Proust viene anche tradito. E non solo perché alla sua
lezione si combina quella di Raymond Roussel (amico di famiglia - era
datore di lavoro del padre di Leiris, agente di cambio), la gelida e
micidiale macchina paranomastica spiegata postuma, nel '35, da
Comment j'ai écrit certains de mes livres. Il fatto è che il
caleidoscopio di Proust, agitato con sovrana maestria dall'artefice,
alla fine dei sette volumi della Recherche lascia deporre i suoi
frammenti e ci permette, così, di ritrovare il Tempo assieme a lui.
Che ne esce trionfante. Mentre la Règle du jeu, dopo aver
annunciato che il suo ultimo volume s'intitolerà Fibules, e
che in questi «fermagli (...) bisognerà che il tutto combaci»,
(non) si conclude con il «rumore flebile» di Frêle Bruit: dove
pervengono «del tutto liberamente poesie e prose o brevi o lunghe,
annotazioni diaristiche e saggi ampli e articolati, in una
frantumazione che ripresenta in un solo luogo tutti i suoi modi di
produzione» (Ivos Margoni). E dove il senso di sconfitta e
d'impotenza, tipico del suo autore, sprofonda al suo nadir.
Se un orizzonte di senso,
circa l'esistenza, non può essere conseguito (tanto è vero che il
vecchio Leiris si ostinerà ancora a scrivere di sé, con Le Ruban au
cou d'Olympia e Langage Tangage), forse è sotto un ordine
squisitamente letterario e autoreferenziale che Frêle Bruit chiude i
conti con la lunga parabola del suo autore: appunto mettendo assieme
- in un fuoriformato di proporzioni pazzesche - tutti i generi da lui
impiegati, nei decenni, nell'interminabile inseguimento di se stesso.
Il successo e il
rischio
Si spiega per eccesso di
pregnanza l'oblio in cui, almeno da noi, è caduto questo gigante del
Novecento. Che molto avrebbe da insegnare nel tempo in cui, sino a
farsi inopinatamente quasi mainstream, è stata codificata (da Serge
Doubrovsky in termini squisitamente leirisiani: «al di fuori del
buonsenso e della sintassi del romanzo - sia esso di forma
tradizionale o innovativa: agnizioni, filiere verbali,
allitterazioni, assonanze, dissonanze, écriture prima o dopo la
letteratura, concreta, come si dice nel linguaggio musicale. O
ancora, sua autofrizione onanistica, paziente e fiduciosa: che
vorrebbe una buona volta farci partecipare, alla fine, al suo
piacere») un'idea di scrittura in sé certo non banale come
l'autofiction.
In Contro
l'interpretazione, recensendo nel 1964 Età
d'uomo, Susan Sontag paragonava la «lacerazione e la
messa a nudo dell'io» di Leiris a quella di Norman Mailer. Due
autori che apparivano a lei stessa antitetici: «Mailer, in fondo,
nei suoi scritti si preoccupa più del successo che del rischio: il
rischio è soltanto un mezzo per arrivare al successo. A Leiris come
scrittore invece il successo non interessa». Com'è ovvio (anche
Mailer è uno scrittore vero) non si sta parlando, beceramente, del
successo commerciale: ma appunto del successo metafisico, diciamo
proustiano, nella conquista di sé. Figurarsi se oggi qualcuno
potrebbe avere la pazienza eroica, il vero e proprio stoicismo da
palombaro col quale per mezzo secolo Leiris ha scandagliato il mare
fondo dentro di sé. Soprattutto parrebbe non meno che inconcepibile,
oggi, che per operare un tale scandaglio - senza garanzie di
successo, e anzi nell'assoluta certezza dello scacco - possa (o
debba) essere mobilitato un simile esercito di paraphernalia retorici
e linguistici.
Non riveste alcun pregio,
oggi, il tesoro di Leiris. La perla che alla fine ha trovato, in
fondo al mare di sé, non è affatto l'oggetto che s'era prefisso per
la sua ricerca - un qualche ignoto tesoro sommerso, prezioso al punto
di tutto spiegare e tutto giustificare. Quello che ha scoperto Michel
Leiris, al contrario, è che l'unica vera ricompensa, al fondo
dell'immersione, è il mare di parole attraversate per raggiungerlo.
“il manifesto”, 15
agosto 2012
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