8.9.15

In morte di Franco Fortini. Amici e nemici (Simonetta Fiori)

E' stato Nietzsche a scrivere che soltanto un nemico può condurti per mano all' interno della fortezza di te stesso. A Franco Fortini la citazione piaceva, anche perché di avversari ne aveva tanti. Di genere diverso: amatissimi nemici, o amici-nemici, ed anche semplicemente nemici. Era impensabile un legame con lui immune da furori e umori ardenti. "Sarò pure aggressivo, rabbioso, violento", ammetteva, "ma c'è qualcosa che mi sfugge. Sono un sopravvissuto che non s'è mai pentito: perciò mi criticano". Fedele alle inimicizie.
"Le sue rabbie erano un genere letterario, la passione un modo di esprimersi", corregge Giulio Bollati. Si conobbero ai tempi del “Politecnico”, lavorarono insieme alla Einaudi. Poi la rottura, suggellata da un celebre epigramma fortiniano che lo ritraeva ciambellano alla corte del divo Giulio: "Mi offese a morte: io, il capo della dissidenza contro Einaudi, ridotto ad accendisigari del Principe. Gli risposi con un altro epigramma: Fatti i dovuti sconti/ sembra Vincenzo Monti...".
Gli epigrammi. Fulminanti, abrasivi. Come quello contro Geno Pampaloni, nemico scelto per oltre quarant' anni: "La buona stampa/ consiglia ai buoni/ anima e zampa/ liscia ai padroni/ Il Geno Pampa/ loni e ne campa". Li univa la devozione per Giacomo Noventa, li separava l'esser l'uno a sinistra e l'altro olivettiano. L'aspra discordia indusse il comune maestro Noventa a dedicare loro il suo saggio sul Grande Amore in ' Uomini e no' : "A Franco Fortini e a Geno Pampaloni/ perché ognuno accetti da questo piccolissimo libro/ la metà che l' altro rifiuta...". Tentò una strada pacificatrice anche Piergiorgio Bellocchio, l' artefice dei “Quaderni Piacentini”. L'esito fu fallimentare, per un secco rifiuto di Fortini: "Che senso ha una riconciliazione oggi, dopo decenni di colpi inferti o subiti?". Oggi Pampaloni tenta di scherzarci su. "Con Franco sono stato molto amico dal mio arrivo a Firenze, nel 1937, fino a quando, un giorno sull'autostrada, voleva convincermi a non rivelare ad Adriano Olivetti che ci eravamo incontrati. Mi sembrò troppo e lo mandai a quel paese". In ricordo dell'antico avversario s'accende di poesia e così prosegue: "Se dovessi usare una parola per definire Fortini, sceglierei corruccio. Era un uomo corrucciato, in primo luogo contro se stesso. Ecco, da una poesia del 1950 di cui conservo l'originale, qualche verso che si può leggere come un testamento: Piccola notte, è l' ora di lasciare/ la lampada, e dormire. Quali voci per le vie/ a quest' ora?/ E' l' ottobre/ dei carbonai, la nebbia. / Questo piccolo mondo ora non duole, / ed è buio e lontano/ coi suoi deboli treni. / E' l' ora di lasciare/ la lampada a guardare / senza rimpianto il sonno. Caro Franco, che il sonno ti sia lieve".
Un altro nemico gli rende l'onore delle armi. E' Alfredo Giuliani, che recentemente ha celebrato "il pluritrentennale delle picchiate in testa" che si divertì a dargli sul “Verri”. "Fortini è triviale, rabbioso, impreciso e supponente", ha scritto anche recentemente su “Repubblica”. "Giuliani mi insulta? Che Dio lo benedica, gli auguro cento di questi articoli", gli replicò Fortini. "Esprimevamo due poetiche distanti", racconta oggi Giuliani. "La sua era una poetica della diffidenza, un po' provinciale, inconcludente, intrisa di moralismo e ideologia. Come se il poeta avesse lo scopo autobiografico di piangere sull'infelicità storica". Il dissidio è profondo, il tempo non lo mitiga. "Mi è sempre apparso intellettualmente e poeticamente improduttivo. Non tolleravo i suoi speciosi arzigogoli, quel dire e non dire. E' esemplare un suo intervento sul “Menabò Due”, una stroncatura di Pasolini talmente dialettica che poteva esser letta come un elogio. Davvero irritante".
"Non ha mai cessato di nutrirmi, anche quando mi irritava", interviene in difesa Piergiorgio Bellocchio. "Credo che sia stato il mio principale lettore-giudice, voglio dire quella figura ideale, ma anche ben reale, a cui chi scrive pensa". Anche Giulio Bollati punta sugli aspetti di fascino. "E' vero: era un moralista. Ma era nel contempo anche altre cose. Ed è questa confederazione di profili diversi a intrigarmi di più. Era il letterato finissimo formatosi nella Firenze delle Giubbe rosse. Era anche l'intellettuale con forti interessi civili e politici. La cifra distintiva era però una sorta di vocazione profetica. Mi tornano in mente questi suoi versi: Verrà, verrà la lettera, che su carta intestata ti renderà giustizia. E dirà che era vero tutto quello che sai. Un Profeta rimasto sempre ai margini".
Tra gli amici, ce n' è uno che soffre di più. Anche lui ebbe l' onore di un epigramma. "Quirite l' afa nelle sieste stempera/ equo coerente inquieto cauto Cases". Cesare Cases e Franco Fortini. Si conobbero a Zurigo il 6 gennaio del 1944. Fortini, vestito da befana, recitò per i bambini della scuola libera antifascista una lunga sequenza di versi martelliani scritti da Cases. "Mi divertivo a comporre queste poesie nello stile del Corrierino dei Piccoli. E Franco per una vita mi rimprovererà bonariamente di essere rimasto lì, al Corrierino. La verità è che mi mancherà molto. Proprio per ciò che lui aveva e io non ho. Il temperamento creativo, la capacità di intendere la poesia moderna. Quando lavoravamo insieme al Faust, mi ripeteva con affetto: ' Ci sono delle Muse che alla tua nascita non erano presenti...' . Io volevo la verità, scriveva. Ecco, era ciò che apprezzavo in lui, e che conferiva autenticità anche alle sue prese di posizione più azzardate".
"Proteggete la nostra verità". E' l' ultimo verso di Composita solvantur quello che più piace a Giulio Einaudi. "Era una voce vera, sferzante, anche violenta. L'accoglievo come una boccata d'ossigeno. Gli anni del suo furore rimangono memorabili. Contro gli avanguardismi da vertigine, contro la narrativa di tutto riposo. Era un uomo contro. Mi mancherà".


“la Repubblica”, 29 novembre 1994  

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