8.9.15

Italia 1831. La fallita marcia su Roma (Lorenzo Del Boca)

In Risorgimento disonorato Lorenzo Del Boca racconta, tra molto altro, i moti liberali del 1831, quelli che portarono a morte Ciro Menotti. I libri di scuola raccontano il tradimento del duca di Modena il quale, – dopo aver lasciato credere d'essere disposto ad accogliere le richieste di Costituzione – individuato grazie a un delatore il luogo della congiura, lo fece circondare dai suoi armati. Il capo, Ciro Menotti, tentò di fuggire dal tetto ma, ferito da una fucilata, fu arrestato e condotto in carcere insieme agli altri.
Il moto non si fermò. I patrioti modenesi rimasti liberi scesero in strada, conquistarono il controllo della città ed elessero un avvocato (Biagio Nardi) come dittatore, mentre il duca Francesco IV si trasferiva a Mantova per guidare da lì la repressione. Intanto comitati insurrezionali si formavano in varie città vicine, quasi tutte sottoposte al governo pontificio, come Parma, Bologna e Ancona. La parte di racconto che qui riprendo comincia da questo punto. (S.L.L.) 
Una stampa commemorativa dei moti del 1831 dall'Archivio di Stato di Rieti
I resoconti dell’epoca sostennero che le file dei patrioti andavano ingrossandosi da «migliaia di volontari disposti a giocarsi la vita per conquistare la libertà» con un entusiasmo prodigioso. I cronisti patrioti assicurarono che, sull’altro fronte, furono colti di sorpresa e restarono immobilizzati dallo sgomento. Il cardinale di Belluno Mauro Cappellari, appena nominato Papa con il nome di Gregorio XVI, «si sentì commuovere a paura più che a indignazione».
Nel vuoto di potere che si era creato, tanti pensavano di comandare e pochi lo facevano davvero. In particolare si sviluppò un contenzioso fra il responsabile politico, marchese Giovanni Vicini e quello militare, generale Sercognani. I soldati volevano marciare su Roma, approfittando dello sbandamento dei vecchi governanti, ma il progetto venne ostacolato da Bologna. Avevano paura che un’azione diretta contro il Pontefice avrebbe provocato un intervento straniero.
Perciò, un contingente si mise in marcia verso Roma ma come se si fosse trattato di un’iniziativa individuale, più che un’operazione concordata fra gli insorti. I volontari dichiararono di essere la “vanguardia” di un esercito popolare che si sarebbe costruito strada facendo. L’altro comandante militare, Pier Damiano Armandi, consigliò il collega di attestarsi a Narni. Sercognani, invece, tirò dritto, conseguendo anche qualche successo avendo disarmato i contingenti papalini di Spoleto e di Terni. Però a quel punto, con pochi uomini, la maggior parte dei quali senza scarpe e con un armamentario approssimativo, si fermò davanti alle mura fortificate di Rieti e quello stop fu sufficiente per cucirgli addosso il marchio del traditore. «Furono poche archibusate a farlo desistere - si domandarono i rivoluzionari - o lo splendore dell’oro del vescovo Gabriello Ferretti?».
Antonio Vesi, autore di una “narrazione storica” degli avvenimenti del 1831, sostenne che la conquista di Roma era alla portata di mano e che quell’azione avrebbe decretato la vittoria dei liberali.
Sembrerebbe una versione accecata dall’ottimismo perché le stesse cronache dovettero ammettere che, pochi giorni dopo, gli austriaci arrivarono per riportare l’ordine e non trovarono nessuno. Il 21 marzo, le truppe di Vienna occuparono Bologna «senza tirar colpo» e riconsegnarono la città al cardinale Opizzoni. Qualche “ardenza” soltanto a Rimini... Callimaco Zambianchi era lì e, con un manipolo di volontari, tenne duro, giusto per non darla vinta ai nemici senza combattere. Ma era «impossibile sostenere il cozzo austriaco» e si ritirarono. Il comandante Carlo Zucchi, pubblicando le sue memorie, ricordò che «la pugna fu gagliarda e prolungata per un’ora».
Più tardi il generale Armaroli firmò la capitolazione mentre Terenzio Mamiani si rifiutò, conquistandosi di diritto un posto nel libro d'oro degli eroi.


Risorgimento disonorato, Utet, 2011

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