8.9.15

Jack London. Il merito di “scrivere male” (Beniamino Placido)

Qualche anno fa mi capitò di proporre — un po’ per scherzo, un po’ sul serio — la costituzione dell’« Associazione segreta lettori di Jack London ». Non direi che alla proposta abbia arriso grande fortuna. L’unica adesione ufficiale è stata quella di Sebastiano Timpanaro, che potrebbe però bastare, trattandosi di un filosofo e filologo illustre. Tanto più che egli la motivava ricordando quanto Jack London piacesse al partigiano « Potente », un uomo a lui molto caro.
Tuttavia l’Associazione caparbiamente esiste. Anzi, si può anticipare qualcosa dell’arredamento della sede (se ne avesse una): sulle pareti spiccano i ritratti del “londoniani” di maggior prestigio: da Lenin (che leggeva Amore della vita due giorni prima di morire) a Trotzkij; da Gramsci, che chiedeva libri di London dal carcere di Turi, a Majakovskij, che scrisse una riduzione teatrale di Martin Eden, a Ernesto Che Guevara, (che deve il nome proprio al protagonista del Tallone di ferro (Ernest Everhard), un libro che era d’obbligo una volta nelle bibliotechi-ne di sezione dei partati operai.
Intanto, mi azzardo tranquillamente a iscrivere all’Associazione gli studiosi che più hanno contribuito al revival londoniano di questi ultimi anni con l’avallo dato alla ripubblicazione delle sue opere più famose: Vito Amoruso (Farsi un fuoco, De Donato, 1972); Goffredo Fofi (Il tallone di ferro, Feltrinelli, 1972); Nanni Balestrini (Martin Eden, Sonzogno, 1974); Francesco Saba Sardi (Zanna Bianca, Sonzogno, 1974) ; Oriana Fallaci (Il richiamo della foresta, Rizzoli, 1975) ; Giorgio Bocca (Il richiamo della foresta, Savelli, 1975) ; Alessandro Rofferri (La strada, Guanda, 1976); Alessandro Gebbia (La lotta di classe, Lerici, 1977); Maurizio Flores D’Arcáis (Il richiamo della notte, Feltrinelli, 1977).

Borges presidente
Presidente onorario dell’Assocdazione non può che essere Jorge Luis Borges, autore dell’introduzione a Le morti concentriche (Franco Maria Ricci, 1975).
A questo punto ci sono ancora delle ragioni perché l’Associazione rimanga « segreta », malgrado tutti questi accreditamenti? Ritengo di sì. Perché in fondo Jack London la sua legittimazione letteraria vera e propria non l’ha ancora avuta. Gli pesa addosso — ancora — la sufficienza con cui è stato trattato dai tre padri fondatori dell’americanistica italiana: Cecchi, Pavese e Vittorini, che lo giudicavano francamente rozzo e volgare. Gli pesa addosso l’accusa di scrivere «male» (e come poteva scrivere «bene» uno scrittore che sfornava tre libri all’anno?).
Non è un’accusa che lo collochi in una cattiva compagnia. Anche di Italo Svevo si sostenne a lungo che non sapesse scrivere in un italiano decente. E quelli che hanno la sfortuna di poterlo leggere in originale sostengono che Dostoevskij scrive malissimo: beati noi che lo leggiamo in traduzione, così non ce ne accorgiamo. Questo non per dire, naturalmente,che lo stile non è importante. Mia per insinuare il sospetto che la nostra concezione dello stile è a volte impotente.
E dietro lo stile, ci deve essere qualcos’altro. Cercherò di chiarirlo con un esempio. Venticinque anni fa Carlo Cassala scrisse per “Il Mondo” un pezzo di costume - molto bello: Eros metafisico. Descriveva un giovanotto di quartiere, Eros, volgarone e sentimentale, dedito soprattutto alla caccia alle serve. Questo Eros chiese un giorno allo scrittore cosa ne pensasse della metempsicosi. Lui ci credeva. L’aveva convinto la lettura di un libro di Jack London, Il vagabondo delle stelle. C'è quanto basta per squalificare – incidentalmente e certo involontariamente - qualsiasi libro (e difatti mi sono guardato bene dal leggerlo: Jack London era la metafisica dei dongiovanni di periferia.

Un condannato a morte
Ma si dà il caso che Il vagabondo delle stelle (« The Star Rover ») sia stato ripescato e ripubblicato l’anno passato dalla Corgi Books, una casa editrice inglese specializzata, come un classico della fantascienza.
Questo mi ha incuriosito, incoraggiato a leggerlo. E per quanto si tratti di un libro che appartiene all’ultima produzione di London (1915), scritto alla disperata quando l’autore aveva un disperato bisogno di quattrini, Il vagabondo delle stelle è un romanzo assolutamente straordinario. Già nell’invenzione della vicenda. Che non è affatto una scorribanda patetica nel regno della trasmigrazione delle anime. E’ la storia di un condannato a morte, scritta con tanta energia da far tornare alla mente le famose travolgenti cento pagine finali della Tragedia Americana di Dreiser (un altro che scriveva « male », a proposito) dedicate allo stesso tema.
Dentro il tema, c’è una variazione. C’è un segreto che il protagonista, condannato a morte, non vuol spifferare. Anche se lo stringono in una specie di camicia di forza che gli permette appena di respirare. Ma lui ha capito come fare per resistere. Si lascia svenire. E in questa specie di morte vive delle altre vite. Delle esistenze fantastiche. Ma tutte contrassegnate da un elemento in comune. Si svolgano nel Settecento francese o nell’antìchità romana, sono esperienze di resistenza al potere, di tenacia, di rabbia paziente e contenuta, di «collera rossa», come lui la definisce («red wrath»). E se fosse questo il tema che Jack London ha sempre trattato: resistere, non darla vinta, non darsi mai per vinto, tenersi rabbiosamente abbarbicato alla vita?
Si capirebbe allora perché London piaceva più a Lenin, al partigiano Potente, e meno ai nostri letterati degli Anni Trenta. Certamente dignitosi e raffinati, certamente non accademici, ma che vivevano pur sempre in una civiltà letteraria dove le facoltà umanistiche si chiamavano ancora Facoltà di Belle Lettere, nelle quali si insegnavano le Buone Maniere, praticate poi dalla Belle Statuine.


“la Repubblica”, mercoledì 27 luglio 1977

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