8.9.15

La macchina di Wells. Il presente proiettato nel futuro (Vito Amoruso)

Il messaggio di uno scrittore pacifista e socialisteggiante alla borghesia dell'Inghilterra vittoriana

A rileggerlo oggi, La macchina del tempo (B.U.R., 1975), il celebre romanzo avveniristico che H.G. Wells pubblicò nel 1895, serba intatti la sua presa narrativa, il fascino di un racconto che nel suo perfetto e lineare intreccio rappresenta ormai un classico, quasi un modello archetipico in quella particolare forma di letteratura d’intervento sul presente che è la narrativa utopistica e fantascientifica.
E’ ovvio, tuttavia, che il suo valore, il piacere stesso di una rilettura non stanno nelle così dette qualità «profetiche» del libro: in verità, oggetto dell’interesse non è il futuro, il remoto e terribile anno 802701 in cui con un balzo formidabile nella «quarta dimensione» lo scienziato inventore della macchina è catapultato, ma il presente più attuale, o meglio qualcosa che in esso rivela una sinistra potenzialità, una drammatica fase di crisi e di svolta, un punto di non ritorno che l’incursione fantastica nello ipotetico futuro non solo esplicita sino in fondo ma, quel che più conta, deve servire a non realizzare, esorcizzando nella mostruosità del quadro immaginato l’apocalisse del suo possibile avverarsi.
Il presente a cui Wells si rivolge sono l’Inghilterra vittoriana con gli immensi, drammatici problemi propri a una società fortemente industrializzata. orgogliosa dei suoi progressi teenolosici e scientifici, del suo vasto imparo, della sua missione civilizzatrice, e. in essa, quella classe intellettuale che attraverso l’adesione al «darwinismo sociale», all’evoluzionismo di Spencer, al mito stesso della scienza come nuova fede risolutrice d’ogni contrasto sociale, aveva sposato la causa del capitalismo e del suo modello di società, anche là dove sembrava opporgli il modello alternativo di un socialismo utopistico, proiezione estrema, agli occhi di Wells, dell’ingannevole progresso legato alla diffusione del benessere materiale, del Welfare State.

Preistoria
Il futuro, dunque, che La macchina del tempo nitidamente evoca, non è che una estensione radicalizzata del presente. Perciò è rappresentato non semplicemente come un inveramento di quest’ultimo ma, più esattamente, come una sua inversione, innanzi tutto temporale, un suo compiersi senza ritorno, congiungendo l’inizio del mondo, oscuro e preistorico, alla sua «fine» futura che lo ripete e insieme lo chiude, definitivamente ne blocca l’evoluzione. Questa idea del tempo, del suo scorrere, avverarsi e fermare, è da Wells ovviamente mutuata da Spencer, ma rovesciata in negativo: perché anche Spencer immaginava una lenta evoluzione, un progresso costante, ma non all’infinito. Idealizzata, elevata a modello, la forma temporale del suo progresso rendeva definitivo il modello di rapporti sociali propri al capitalismo nella sua fase matura. Wells ne riassume lo schema strutturale ma di quella proiezione ottimistica ci mostra, come di una foto, il negativo.
Il futuro degenera in passato e proprio per questo non è che un immobile, mostruoso, possibile presente, uno spazio informe in cui ogni vita è assente perché ogni contraddizione, ogni tensione, ogni complessità è sparita: tutta la semplicissima ma efficace struttura narrativa e ideologica del romanzo è poggiata su questa idea del tempo come falso moto in avanti, come rivolgimento verso un punto che non volgerà più.
Cosa incontra il Viaggiatore del Tempo sbarcando nel futuro? Significativamente, un mondo ugualmente diviso in due classi contrapposte ma collocate a due piani diversi, i raffinati, civilissimi e infantili Eloi (gli eredi ultimi della borghesia capitalista) sopra, alla superficie della terra, in un paesaggio che è uno smaltato, delicato e ubertoso giardino d’Arcadia, e i Morlocks (i discendenti della classe operaia) scimmieschi e lunari sotto, nelle buie, cavernose viscere della terra. La contrapposizione dunque permane, solo, essa non è più né dialettica né storica, ma verticale e biologica. È vista, insomma, come una pericolosa separazione definitiva fra alto e basso, e questa volta la barbara novità è data dal fatto che è la classe un tempo schiava e sfruttata a dominare, sono i Morlocks a nutrirsi di quel bestiame da pascolo, gli inermi Eloi.
Non a caso la prima ingannevole immagine edenica che si presenta al viaggiatore, quel paesaggio che sembra aver cancellato ogni traccia di lotta, di fatica, di bisogno, con gli estenuati Eloi che vivono solo per danzare, amare come in un gioco, nutrirsi di sola frutta, gli fa pensare a una utopica società comunistica. In realtà, l’amara ironia è evidente: gli Eloi non sono che una larva di vita, un decadente crepuscolo, ogni luce intellettuale in essi è spenta, il loro corpo è un guscio vuoto rattrappito in una grazia decadente, in una rosea, febbrile bellezza preraffaelita e tubercolotica. Più che della borghesia, sono gli ultimi patetici eredi della sua classe colta, il loro estetismo fin de siècle non è che lo spento ricordo di una coscienza intellettuale che una volta guidava il mondo. Non a caso il Viaggiatore del Tempo, pur condannandoli e trovando inevitabile la loro estinzione, è solidale con loro, perché più totale, più inorridito, è il rifiuto dei Morlocks, cose repellenti e morbide, dai « pallidi volti privi di mento, enormi occhi senza palpebre », simili a scimmie, ragni, topi, pesci dell’abisso.

I Morlocks
I Morlocks già anticipano ciò che poi sarà il vero destino a venire dell’umanità e dell’intera terra: i mostruosi granchi limacciosi e tentacolari che abitano un paesaggio ancor più remoto e spento d’ogni traccia di vita, una mera crosta coperta dal verde livido dei licheni già prossima alla glaciazione finale. Ed è su questa visione da apocalisse, da fredda e quasi incantata profezia che si chiude il viaggio nel tempo. L’angoscia che vi domina non toglie, tuttavia, che una profonda razionalità, un limpido e esemplare «sugo della storia» governino parabolicamente il racconto.
Non v’è dubbio, infatti, che l’anno 802701, quello della immobile opposizione fra Eloi e Morlocks, non è esso stesso il vero futuro in tutta la sua possibile degradazione, ma appena un punto intermedio, una tappa fra esso e il presente, anzi è l'estremo ma ancora, sia pure aberrantemente, umano stadio di questa civiltà e di questa storia. Proprio per questo, diversamente dal silenzioso futuro di ghiacci e cupa tenebra, è ancora passibile di modificazione, aperto all’intervento: il viaggio e il racconto di esso, sono serviti a questo.
Coerentemente alla sua difesa di una letteratura militante e pedagogica e al suo altrettanto netto rigetto di un’arte «che non discute, che non dimostra, che non scopre», (come egli disse nella famosa polemica con Henry James), Wells vuole persuadere a qualcosa, lanciare un monito, individuare un interlocutore e un destinatario del racconto.
Il monito, non v’è dubbio, è tutto nell'invito a evitare la degradante paralisi sociale a cui può portare un ottundente benessere e un indiscriminato, fiducioso progresso scientifico. Mutuando dal biologo Thomas Huxley una lettura pessimistica del darwinismo, Wells se ne serviva per sottolineare drammaticamente come lo spegnersi d’ogni conflitto di classe, ad ogni livello, fosse non solo impossibile, ma addirittura da non augurarsi. Con esso si spegne la vita, degrada animalescamente la umanità, si polarizza astoricamente la lotta di classe. Il monito è rivolto alla borghesia e, per essa, soprattutto ai suoi intellettuali e la sostanza del «messaggio» è squisitamente politica: recuperare la propria funzione «illuminata» di guida della società, ridarsi una acuta e avanzata coscienza di sé come classe, riscoprire il primato del politico sull’economico, della coscienza, delle idee, dei valori, sul benessere materiale al fine proprio di evitare il destino suicida degli Eloi. Nella Macchina del tempo è già anticipata la posizione che l’intellettuale Wells, pacifista e socialisteggiante, strenuo difensore di una lega internazionale delle Nazioni, assumerà in seguito, durante e dopo la prima guerra mondiale, quando, scettico verso le masse e la loro capacità di autogovernarsi, caldeggerà un governo di «samurai», ovvero di una élite di intellettuali, tecnocrati, managers.


l’Unità / sabato 3 gennaio 1976

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