8.9.15

Le storie di boxe di Jack London (Rossella Venturi)

«Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi — cosa impossibile — che re d’Inghilterra, o presidente degli Stati uniti o kaiser di Germania». Era il 1911 quando Jack London scriveva queste righe e non si trattava di una battuta o di una suggestione estemporanea. Quella di London per la boxe fu una passione vera. Fin da quando, giovanissimo, si mise a tirare pugni allenandosi quotidianamente.
Scrittore, London non perse occasione per parlare di boxe appena poteva: in un’affinità di articoli di cronaca e reportage, ma anche nelle sue opere maggiori, da Martin Eden a «The Valley of the Moon».
Tradotti da Mario Moffi sono arrivati adesso in libreria anche due brevi racconti rigorosamente «pugilistici» : Il bruto delle caverne e Una bistecca. La Sugar Co. Edizioni li ha raccolti entrambi in un piccolo volume che ha intitolato Storie di boxe.
La data di nascita dei due racconti (rispettivamente 1911 e 1909) segnala che quando London scrisse erano anni decisivi per il pugilato: la boxe cambiava pelle e da attività illegale e clandestina diventava sport dal seguito di massa e business niente male. Dalla strada passava definitivamente al ring. Che vuol dire: dai pugni nudi ai guantoni; dalle vecchie London Prize Ring Rules al regolamento del marchese di Queensburg e cioè dalla durata illimitata dei combattimenti a un numero fisso di riprese e alle categorie rigidamente divise in base al peso.
L’ultimo storico incontro a pugni nudi si era combattuto infatti l’8 agosto 1889 a Richmond, Mississippi. John Lawrence Sullivan contro Jackie Kilrain. E fu Sullivan a vincere, al 75° round, dopo ben 2 ore, 16 minuti e 23” di combattimento, il primo che gli storici considerano valido per il titolo mondiale. Poi, il 7 settembre 1892 aveva segnato l’inizio di una nuova era: per la prima volta nella storia della boxe erano comparsi i guantoni. All'Olympic Club di New Orleans, James John Corbett, detto «Gentleman Jim» (lo stesso che fu interpretato nel 1942 da Errol Flynn e diretto da Raoul Walsh) sconfisse il grande Sullivan in 21 riprese. Da allora in poi gli eroi del pugilato americano (e non) non avrebbero più colpito a mani nude e le regole del marchese di Queensburg sarebbero rimaste in vigore fino ad oggi: jound di 3 minuti ciascuno, intervalli di 60 secondi, ring quadrato di 20 piedi per lato e guantoni di pelle imbottiti obbligatori. Più tardi, nel 1902, un dentista inglese, Jack Marks, avrebbe introdotto anche il paradenti, usato per la prima volta da Ted Kid Lewis. E da lì a poco, negli anni Venti, sarebbero arrivati gli anni d’oro della boxe a stelle e strisce, quelli di Jack Dempsey e di Gene Tunney.
Non si trattò di semplici innovazioni tecniche o procedurali, ma della filosofia del combattimento. Non a caso verso gli anni Trenta si accenderà in America una grossa polemica tra i sostenitori e gli avversari dei guantoni, tra etica del confronto a nocche scoperte e gusto «piccolo borghesi» del colpo imbottito. E tra gli irriducibili nemici del guantone si schiererà James Cagney, sostenendo che il pugno guantato è ipocritamente più «soft», meno violento solo in apparenza, ma in realtà ben più pericoloso, in grado di dispensare lesioni ed emorragie celebrali con la «pulizia» di un killer professionista. Quando London scrive di boxe questa polemica è ancora lontana, ma il mondo del ring è già cambiato.
E se in Una bistecca la boxe è la metafora che contrappone la Gioventù «serica di pelle, insofferente a qualunque cautela e precauzione», al declino dell’età adulta, nel secondo racconto (Il bruto delle caverne, il cui intreccio London aveva comprato dal giovane Sinclair Lewis) già si respira l’aria del cinema gangster-pugilistico che avrà fortuna negli anni ’30, ’40 e ’50: corruzione sociale e morale, incontri e scommesse truccate, il ring ridotto a fabbrica di dollari sporchi e i pugili a carne da macello.
Baby Pat Glendon, il «bruto delle caverne», è un giovane gigante naif, un tipo che sembra uscito da una fiaba o da una leggenda popolare: sangue irlandese, cresciuto sui monti a caccia di cervi, selvatichezza e innocenza allo stato puro, senso innato delle distanze e dei tempi, caldo e freddo al tempo stesso. «Un filo elettrico scoperto messo dentro una ghiacciaia» (pag. 26). I suoi colpi e il tempismo sono micidiali: qualunque sia l’avversario un incontro con Baby dura solo pochi secondi. Al punto che per salvaguardare spettacolo e scommesse il manager deve convincerlo a trattare forza e colpi. Ma quando Baby scoprirà di essere l’inconsapevole protagonista di match truccati denuncerà tutto al pubblico e combatterà l’ultimo incontro senza risparmiare la potenza: «E’ uno sport niente male la boxe, ma ormai lo stanno conducendo in base al principio del profitto, e questo la rovina» (pag 90).
Dopo aver visto che la città americana ormai è diventata identica a quella europea, piena di miseria, rabbia, odio e abbrutimento morale, Baby abbandona per sempre il ring e torna sui monti tra i cervi. E’ il tema londoniano del superindividuo in lotta, depositario del mito della frontiera, di una natura ancora incontaminata e selvaggia.
L'America è la più grande smentita del sogno americano, della mistica della libertà, dell’uguaglianza e delle opportunità per tutti. Come la boxe.
London lo ripeterà nel 1913 in The Valley of the Moon: «Sai cosa siamo noi, di vecchio ceppo bianco? (...) siamo gli ultimi dei Mohicani... Era un paese niente male questo (...) Ci han fregati. Non c’è riuscito di segnare le carte, di passarle dal fondo, di infilare di nascosto il mazzo falso, come hanno fatto gli altri. Siamo i bianchi falliti. Siamo i bianchi che han perduto».


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1985.

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