30.9.15

Quella battaglia del 53. I comunisti e la "legge truffa" (Pietro Ingrao)

Credo che fu Giancarlo Pajetta ad affibbiarle quel nome: "legge truffa". Altri sostiene che fu Piero Calamandrei. Parlo della proposta di legge elettorale maggioritaria, che Mario Scelba, ministro degli Interni del terzo gabinetto De Gasperi, presentò alla Camera dei deputati a fine ottobre del 1952.
In ogni modo noi dell'Unità ci impadronimmo di quel nome, e lo agitammo testardamente nella lunga e durissima campagna elettorale, che si sviluppò - come si diceva allora - "nel Parlamento e nel Paese", sino al 7 giugno del 1953, giorno del voto. E quel nome le rimase appiccicato. Finì per diventare di uso corrente anche su giornali dello schieramento governativo.
Era una legge che anticipava tante cose delle omelie attuali a favore del premio di maggioranza e contro il criterio proporzionale, a parte il fatto che nel ricorso al criterio maggioritario essa era particolarmente indecente: alla coalizione vincitrice (allora si usava in proposito un termine curiosamente familistico: agli "apparentati"...) regalava un premio di maggioranza esorbitante: se essa coalizione raggiungeva il 50,01% dei voti si vedeva assegnati il 65% dei seggi.
Ed era un premio al tempo stesso generoso e torbido: perché poteva portare la D.C. a superare da sola la maggioranza assoluta dei seggi, e perché poneva una mina sotto uno dei paletti posti a garanzia della Costituzione: la possibilità del ricorso al referendum popolare, in caso di un processo di revisione. E la rigidezza del sistema costituzionale era stata una delle garanzie che consapevolmente i cattolici e la sinistra si erano date reciprocamente in quella fine del '47, quando già la spaccatura del mondo uscito dalla vittoria sul nazismo era in atto.
La cosa curiosa è che quel modulo maggioritario - esaltato e giustificato fra l'altro come strumento per semplificare e accelerare il lavoro legislativo e di governo - lasciava in piedi un edificio parlamentare assurdamente barocco: due Camere con poteri assolutamente uguali e un numero di parlamentari che ascendeva al migliaio: una selva, che portava a un lungo, estenuante vai e vieni delle proposte di legge dall'uno all'altro ramo del Parlamento, e quindi a tempi assurdi per l'approvazione di una legge, oltre che a procedure e a patteggiamenti sfibranti. Dunque, e senza dubbio, un sistema di regole pletorico, il quale sgorgava per un lato dall'umiliazione che il Parlamento aveva subito sotto la dittatura fascista, e per un altro verso dal desiderio dei due schieramenti parlamentari protagonisti - il blocco democristiano e lo schieramento socialcomunista - di assicurarsi posizioni possibili di resistenza in caso di sconfitta.
Non basta: dalla Democrazia cristiana si metteva mano a una modifica così pesante del sistema istituzionale, prima ancora che esso venisse completato in punti fondamentali. Le Regioni - così osannate oggi - dovettero addirittura attendere gli anni Settanta per nascere, perché democristiani e liberali per vent'anni si rifiutarono di dare altre sedi di rappresentanza all'opposizione di sinistra, e non si presero briga nemmeno di inventarsi un alibi.


Perchè un maggioritario così sfacciato
Ci si è chiesti: perché la D.C., trionfatrice assoluta nel Quarantotto, approdava a una proposta di un maggioritario così gonfio e sfacciato, quando l'opposizione di sinistra era ancora sotto il vulnus della sconfitta del 18 di aprile?
A questa domanda ancora oggi non sono state date risposte valide. Una di esse, messa in campo dalla pubblicistica cattolica, ha un sottile tanfo di ipocrisia: la D.C. avrebbe voluto garantire margini di sicurezza ai suoi possibili alleati (liberali e socialdemocratici essenzialmente), palesemente in sofferenza e divisi fra di loro.
È una spiegazione troppo gentile e generosa. E soprattutto essa non coglie la situazione nuova ed ardente che si era determinata nel Paese dopo i grandi eventi del '48.
Nello scontro di quell'anno cruciale la D.C. aveva condotto una asciutta ed aspra battaglia di chiaro segno fondamentalista, di collocazione - per così dire - vitale: Dio e il pane, la croce e lo sfilatino americano, da difendere contro la minaccia che premeva da Mosca, da un altro "universo". Ed essa si era presentata in quello scontro come lido estremo d'Occidente e punto cruciale di frontiera con il mondo dei "senza Dio".
Certo: dentro questo paragone tra mondi c'erano poi manipolazioni grottesche, anche bugie elementari. E tuttavia quella assolutizzazione del confronto su beni primordiali, guidata da De Gasperi e da un papa, aveva alla sua base attualizzazioni stringenti e concrete come il piano Marshall e un primo abbozzo d'Europa, avviato arditamente con il fratello tedesco Adenauer e con il francese Schumann.
Erano una scelta di campo e un inizio, che si lasciava alle spalle ormai il tempo "resistenziale" e scavalcava, prima ancora che le forme istituzionali, il progetto sociale avanzato in Costituzione.
Questa fu la grande opzione di De Gasperi, quel leader quasi "austriaco" che noi mettevamo in burla per il suo italiano sgrammaticato. Ed egli vinse anche e molto per queste essenziali scelte di campo in un mondo che si spaccava a metà (solo dopo, parecchio dopo emerse l'area che si definiva dei "non allineati").
E tuttavia in questa netta e si può dire "blindata" delineazione di orizzonti politico-militari era tutta aperta e bruciante la questione del volto sociale dell'Italia, rispetto a cui il rigore di Luigi Einaudi si era solo limitato a rimettere in ordine i conti, mentre erano tutte aperte, o già terreno di lotta scottanti questioni sociali.
Paradossalmente le prime ad entrare in movimento furono le regioni del Mezzogiorno, dove la destra aveva la sua roccaforte, ma la domanda di terra dei contadini era antica e furente. E anche nella fascia centrale e ai bordi della Padania dilagò la lotta, con scontri ed eccidi. A Modena furono sei i dimostranti uccisi in piazza dalla polizia. Per capire bene quella congiuntura, bisogna ricordare che in quell'Italia ancora stordita dalla terribile guerra c'era un accumulo di pesanti vertenze di classe che s'intrecciavano con le innovazioni febbrili e accelerate che approdavano da una arena già mondiale. E insieme pesava straordinariamente l'essere l'Italia fascia di frontiera fra i due mondi e sede della cattolicità.
Dunque la fonte di quello scontro non era solo la maggioranza parlamentare quadripartita che non reggeva nei suoi bordi irrequieti (liberali e socialdemocratici). Di sicuro in quella stretta (ma anche prima e dopo) pesò molto il "partito romano" (per usare un termine efficace e una linea di analisi messi in campo da Andrea Riccardi), una sorta di lobby interna al mondo ecclesiastico, assai influente, d'orientamento politico clerico-moderato che premeva ai fianchi De Gasperi, anche dalle pagine autorevoli della “Civiltà cattolica” e con i messaggi calcolati e stringenti che venivano da monsignor Tardini. Il Vaticano era in campo, e domandava il dovuto: non solo in nome e a tutela del principio religioso, ma per i sostegni e le forze reali variamente collocate, in quell'Italia così ferita e oscillante del secondo dopoguerra.
E del resto solo adesso, al termine del secolo, cominciamo a conoscere qualcuna delle strutture anche armate, con cui la superpotenza americana - proprio in quei primi anni Cinquanta - definiva i suoi organismi di controllo sull'Italia.
Questi elementi del quadro vanno ricordati per due ragioni: 1°) perché essi - davvero stranamente - da alcuni autori vengono addotti per giustificare (o addirittura legittimare) l'azione di De Gasperi, stretto ai fianchi da queste forze; 2°) per misurare la portata che aveva quella vicenda della legge maggioritaria, e tutto l'aspro spessore politico che assunse lo scontro di classe in Italia appena conclusa la guerra.
Furono in discussione i modi con cui si definivano e ordinavano le soggettività sociali in campo, il loro grado di autonomia e di relazione con il Paese e con il potere pubblico.


La posta in gioco
Non si trattava di decidere se e come avere un po' più o un po' meno di parlamentari, né solo la funzionalità o meno di alcune tecniche di selezione politica. Fu in dubbio la forma della politica. E noi avvertimmo pesantemente che combattevamo non per qualche deputato in più o in meno, ma sul volto e i poteri dei partiti e del Parlamento, questi modi dell'agire politico che il movimento operaio aveva in parte ereditato, ma anche reinventato e trasformato nel corso di un secolo.
Lo facemmo trascinati da due impulsi: la memoria tragica di ciò che aveva significato per l'Italia e per l'Europa prima la crisi, e poi il soffocamento di quelle forme politiche, e la coscienza sofferta, dolorosamente maturata del valore che la democrazia politica aveva nel processo di emancipazione. Che poi questo facesse a pugni con lo stalinismo è vero. Eppure qui emergeva ormai una differenza con l'U.R.S.S., cresciuta e depositata nei gravi anni della lotta clandestina. E fu frettoloso e sommario pensare che noi sinistra italiana, avendo riconquistato da pochissimo - dopo una dittatura ventennale e un conflitto catastrofico - la forma parlamentare, la lasciassimo franare senza una dura lotta. Ed era stupido pensare che noi ragionassimo in modo fanciullesco sull'insurrezione (neppure Secchia lo faceva).
Se vale una testimonianza, e se vado ai miei pensieri di quegli anni, direi che nella mia limitata esperienza io se mai pensavo a una possibile insorgenza come risposta a un "progrom", all'attacco armato che veniva dall'avversario.
E - certo - quando ci furono De Lorenzo e il tintinnar di sciabole di cui parlò Pietro Nenni, quell'assillo ritornava nella nostra mente. Non so dire quante volte, in quegli anni, fui avvertito da Botteghe Oscure che per prudenza era meglio dormire fuori casa.
In ogni modo già nell'estate del 1952 s'incominciò a fiutare la bufera che s'annunciava: l'8 luglio De Gasperi in una intervista al Messaggero invocava uno "Stato forte", con un linguaggio persino inusuale sulla sua bocca. Ho il ricordo preciso di un dialogo con Togliatti, in cui gli chiedevo consiglio circa il modo di commentare quell'intervista così pesante sull'Unità. Come spesso accadeva, disse: "fate voi" (poi all'indomani mattina, se mai, venivano i bigliettini di critica). Ma storse la bocca, non nascose il suo pessimismo. Poche settimane dopo Scelba presentava al Senato il disegno di legge. Cominciava lo scontro.
La mossa degasperiana in qualche modo ci metteva con le spalle al muro. Ci costringeva ad una lotta disperata.
Dispiace vedere uno storico acuto come Pietro Scoppola rilanciare la lettura di un Partito comunista italiano che ha nel suo programma - come dire? - sostanziale, l'insurrezione e la lotta armata, e assumere a convalida di questa lettura le amare rivolte del luglio '48, sgorgate dall'attentato a Togliatti. Di sicuro non fu così.
In quei giorni, in quelle ore - davvero brucianti - partecipai a tutte le riunioni del gruppo dirigente comunista. Non ricordo che da nessuno sia stata messa in campo la strada dell'insurrezione: neppure da Secchia. Colombi (mi pare) fu mandato di corsa a Genova - dove i moti di protesta furono durissimi - a spiegare che non eravamo all'ora X.
Lo sciopero generale della C.G.I.L., guidata dal comunista Di Vittorio, fu lanciato con molta prudenza e inchiodato sulle 48 ore; e di ciò fu data, consapevolmente, larga informazione al governo, in momenti in cui davvero ardevano fra le masse sdegno e collera. Ed è un po' grossolano confondere i moti di piazza (quanti ce ne sono stati - e dolorosissimi - in Italia!) con la rivoluzione comunista.
Anche noi giovani d'allora, venuti al P.C.I. nella cospirazione clandestina di seconda o terza generazione, lo sapevamo. Non a caso Togliatti nel dopoguerra aveva speso tanti dei suoi scritti e comizi a respingere la "prospettiva greca", quando ancora c'erano le armi nascoste nelle case dei partigiani.

Manganellato in via del Tritone
Del resto, in quel finire del 1952, quando stava per concludersi la fase di lotta a Montecitorio, e Secchia in una discussione avanzò l'ipotesi dell'Aventino, anche quella strada fu seccamente scartata da Togliatti: non solo per i cattivi ricordi che essa evocava, ma perché noi avevamo in mente un Parlamento attivo sino all'ultimo minuto possibile, sponda sino all'ultimo alla mobilitazione delle masse; appunto: specchio e animatore della lotta nel Paese. Ambedue le cose. E la "legge truffa" era grave per noi anche e molto perché spezzava quella comunicazione.
È vero che ci fu una resistenza e una riserva anche nell'Italia repubblicana a mettere a tutte lettere, per iscritto, questa peculiarità democratico-parlamentare della via italiana. Lo sperimentai io stesso, quando venni lavorando con Togliatti alla Dichiarazione programmatica dell'8° Congresso, e già c'era stata la demolizione del mito di Stalin. Ma il Parlamento stava nel nostro cammino proprio perché cercavamo, tentavamo di costruire luoghi e forme di potere pubblico, aperti alla volontà delle masse e capaci di incidere sull'agire dello Stato.
Questo spiega la determinazione, ma anche la saggezza con cui fu condotta la lotta.
Fu adoperata con ostinazione, ma anche con misura, l'arma dell'ostruzionismo. Quando alla Camera furono chiaramente consumati gli spazi e anche le sottigliezze consentiti da quella forma di lotta, si presentò la domanda pesante sul che fare. E necessariamente ci si chiese se bisognasse abbandonare quelle aule e quel palazzo: e ritirarsi sull'Aventino, come era stato negli anni Venti di fronte alla legge Acerbo, con cui Mussolini metteva la museruola alle Camere.
Fu Secchia che pose la domanda se non bisognasse fare come trent'anni prima.
La risposta fu no; e non soltanto perché quel nome - Aventino - ricordava una sconfitta storica e Gramsci dall'Aventino era tornato solitario a battersi in Parlamento, ma perché quella nostra lotta del'52-'53 chiaramente puntava a una combinazione di forme di lotta, dai banchi dell'aula parlamentare testardamente guardava ai movimenti nel Paese. Non solo ai comizi, alle lotte di strada. Avevamo in mente la rete delle assemblee. Non era un'invenzione del momento. Era la necessità testarda con cui operavamo nella rete dei consigli comunali, come nelle stanze delle case del Popolo, e nelle fabbriche in cui ancora riuscivamo ad arrivare - insomma i luoghi e le pratiche, con cui sperimentavamo la costruzione di un partito di massa. Tutto stava nel filo che poteva (oppure no) stabilirsi fra l'aula parlamentare e il territorio.
C'era in questa pratica della politica una sottovalutazione, per non dire un oblìo della centralità dei luoghi di lavoro? Può darsi. Anzi: ci fu anche questo. Ma di sicuro - almeno a mio avviso - c'era una sperimentazione della politica diffusa che testardamente mirava ad allargare la rete degli attori in campo. E nonostante la forte centralizzazione gerarchica che segnava il P.C.I. si dilatò fortemente la massa degli attori che nel territorio, pressoché ogni giorno, praticavano un agire politico: ancora dopo la giornata di lavoro, nelle sezioni, nelle Camere del lavoro e nelle Case del popolo, o semplicemente in piazza, fra la gente, nella semplice relazione individuale. E fu uno dei mutamenti che trascinò anche l'avversario al confronto pubblico, alla dilatazione dell'esperienza e della lotta politica. In ogni modo il lungo, ma calcolato, misurato ostruzionismo che tenne aperta la lotta in Parlamento (tra Senato e Camera) per circa un lungo semestre appare assurdo e insensato, se non si afferrano il suo combinarsi e il prolungarsi nel territorio. Al voto sulla "legge truffa" il 7 giugno del '53 partecipò quasi il 94% degli elettori. È ridicolo spiegare esiti simili solo con la pressione esercitata dagli apparati.
Ci fu anche una certa teatralità nelle vicende di quei giorni. Ma forse era obbligata.
Ho nitido nella mente - come fosse ora - un episodio che mi coinvolse. Eravamo in dicembre, al termine di una giornata convulsa alla Camera, quando ormai il dibattito stava avviandosi verso la fine. C'era l'aria aspra e febbrile delle giornate conclusive: l'aula di Montecitorio era gremita come un uovo perché c'erano votazioni.
Mi chiamarono dal giornale (dirigevo allora l'Unità): il centro della città era presidiato dalla polizia e al Tritone c'erano stati scontri gravi con i manifestanti. La polizia aveva picchiato selvaggiamente. Informai di corsa Togliatti. Mi disse: va' a vedere.
Uscii. Piazza Colonna era deserta, calata in un buio fitto, dove si scorgevano appena le sagome delle camionette della polizia. Mi fermarono. Tirai fuori il tesserino di deputato e proseguii.
Risalendo il Tritone cominciarono i caroselli delle macchine dei poliziotti. Sembravano girare a vuoto, perché sulla salita verso piazza Barberini c'era un deserto. Salvo che ogni tanto dai vicoli irrompevano gruppi. Lanciavano grida e si ritiravano. Come seppi dopo, non erano molti. Già c'erano stati nei giorni passati scontri durissimi, cortei rabbiosi. Affiorava una certa stanchezza.
Consapevoli delle deboli forze, i compagni avevano adottato la tattica di irrompere dai vicoli e poi ritirarsi.
La polizia era esasperata, e quando acciuffava un manipolo picchiava selvaggiamente, con insulti e una violenza che oggi apparirebbe impossibile, ma che allora noi conoscevamo bene.
Al crocevia del Tritone, proprio sotto le stanze del Messaggero, una squadra di polizia era riuscita a stringere un piccolo nucleo di manifestanti e menava duro. Mi intromisi protestando. A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa.
Non era nulla di grave. Ma il manganello toccò un punto del cuoio capelluto molto irrorato, quindi il sangue veniva giù copiosamente. Tra le urla e i fischi, mentre una compagna gentile con un fazzoletto cercava di fermare il sangue sulla mia zucca, e stretto da un piccolo gruppo di manifestanti, mi mossi per tornare a Montecitorio.
In aula stava parlando un compagno: aspettai in Transatlantico che finisse, rinviando a più tardi il medico della Camera accorso premurosamente. Poi entrai in aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in quella cupa notte romana.
Questi erano i riti, i modi anche elementari con cui tentavamo di mandare messaggi al Paese. E per lunghi mesi ci furono masse in piazza, e nelle sale comunali, nelle Case del Popolo, nei teatri, e anche - per quanto fu possibile - nelle fabbriche in cui eravamo più forti.
Quella parola "legge truffa" camminò, sfondò anche la blindatura dei giornali borghesi. Divenne la questione, e la collera che la segnava s'accompagnava alla convinzione che nelle urne sarebbe venuta fatalmente per le sinistre la sconfitta: tanto più bisognava gridare quello che accadeva. Tanto più si rinnovò una saldatura tra comunisti e socialisti: per semplici e ineludibili ragioni di difesa, come quasi sempre nei momenti più aspri delle tragedie del secolo. Quanto agli alleati diciamo così borghesi (da Corbino a Piero Calamandrei...) sbiadiva contro di loro la accusa eterna di "utili idioti", perché il dramma parlamentare accendeva, muoveva gli animi nel Paese.
Questo era il punto su cui l'avversario democristiano perdeva, anche in caso di vittoria.
Tornava la stranezza dei socialcomunisti "totalitari" che erano protagonisti su questioni ardenti di libertà. E d'altronde che potevamo fare se non quello che facevamo?
Nella storia da cui sono venuto mi si sono presentate spesso azioni "ineluttabili": e riguardo ad esse che potevamo, se non segnare una traccia, scrutare ogni vicolo possibile, anche solo per fissare nella memoria comune una lettura di ciò che accadeva? Insomma: conoscere, "apprendere" meglio il mondo che avevamo la singolare presunzione di trasformare, con un'azione che cercava insieme e sempre di diventare memoria trasmissibile. Ed eravamo sempre e terribilmente pedagogici.

Lo scontro in Parlamento
Assistetti all'ultimo scontro in Parlamento da una tribuna del Senato, nel marzo del'53. Non fu una seduta: fu solo scontro fisico. Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto volò una tavoletta che lo colpì alla fronte.
Celeste Negarville
Contemporaneamente vidi il senatore Negarville - un compagno incline irresistibilmente alla sottigliezza ironica e ai ragionamenti più disincantati anche sulle cose sacre del comunismo - arrampicarsi sui bordi della tribuna presidenziale con una furia gattesca, mentre Ruini si precipitava verso l'uscita, e l'emiciclo bolliva. Tutto era assurdo e naturale. E del resto nessuno gridò allo scandalo. Il tema era entrato nella mente del Paese.
Al 7 giugno, dopo una frenetica campagna elettorale, votò circa il 94% degli elettori. Si potrebbe dire: tutti gli iscritti alle liste. Era quasi incredibile.
Ho nella mente la passione della notte tra il lunedì e il martedì, mentre si incrociavano - con alti e bassi di delusioni e speranze - i dati che giungevano dal Viminale e quelli che venivano dai compagni delle federazioni e da Botteghe Oscure, dove lavorava, silenziosissimo e preciso, Celso Ghini, un compagno che aveva vissuta la dura scuola dell'emigrazione politica e poi (le singolari metamorfosi!) era diventato quasi imbattibile nel vaglio e nello studio dei dati elettorali.
Circa alle sei del mattino del martedì 9 giugno, dopo una notte vissuta tutta al giornale, mi recai a Botteghe Oscure, per annunciare a Togliatti che il Partito comunista aveva varcato la soglia dei sei milioni di voti. Togliatti, dalla cui bocca non avevo mai sentito una parola scurrile, scattò in un gesto rivolto all'avversario, incrociando il braccio sinistro sul braccio destro. Quel voto voleva dire un radicamento, difficile ormai da cancellare.
Alle 10 di quel martedì mattina ero in tipografia a preparare l'edizione straordinaria del giornale (a me, più di tutto, mi piaceva quel lavoro dove - fra tagli e spostamenti di righe - in dialogo con il tipografo impaginatore, si vedeva nascere il volto vero del giornale). Sentii a un tratto levarsi un urlo lungo nella sala. Non so chi aveva dato la notizia delle dichiarazioni di Scelba: per 57.000 voti la "legge truffa" non era passata.
Ci parve di sortire finalmente dal buio tunnel del 18 aprile 1948. Ed era singolare: mentre altrove nell'Occidente europeo era già iniziato il declino delle formazioni comuniste, ferite dal gelo della guerra fredda, in Italia cominciava un'avanzata che, tappa a tappa, nella seconda metà del secolo, avrebbe portato il Partito comunista italiano al tetto del 33-34%, quasi spalla a spalla con la Democrazia cristiana.

Il fiuto politico di Pietro Nenni
Eppure quella battaglia contro la "legge truffa", a guardarla ormai da lontano, di fatto apriva la strada del governo del Paese non a noi, ma ad una forza che sembrava in qualche modo in difficoltà, e superata dal fratello comunista: il Partito socialista. Qui stava propriamente l'immediato sugo politico.
Naturalmente il corso delle cose non si vide subito. Anzi, tramontata malinconicamente la stella di De Gasperi, emerse a un certo punto un fazioso governo Scelba-Saragat, dove quella congiunzione di nomi sembrava una riottosa chiusura: stavano insieme l'uomo degli eccidi e della messa al bando dei socialcomunisti, e l'altra figura che nello scatenarsi della guerra fredda aveva spezzato la solidarietà fra le forze di sinistra sotto attacco e aveva aiutato De Gasperi nella operazione di rottura.
Ma fu un fuoco effimero. Consumata la stella di De Gasperi, nonostante le apparenze, con quel voto cruciale del 7 giugno, seppure sotterraneamente, era cominciata in effetti la marcia di avvicinamento al centrosinistra. Nenni con il suo fiuto di consumato politico l'aveva compreso, quando ancora il Partito socialista era sotto la direzione "morandiana", così vicina, così amica dei comunisti.
E del resto non si trattava solo di una combinazione di vertice, anche se in certi momenti prese quella forma. In Italia era posta con urgenza la questione della modernizzazione capitalistica, che riclassificava tanti temi sul tappeto.
Nella stessa D.C. avanzavano gli uomini nuovi, prudenti e rispettosi (fino a un certo punto) verso lo statista trentino, ma con altre domande nella testa e con un intreccio di sfaccettature e di storie culturali: da Fanfani a La Pira (stretti amici, ma così diversi nelle loro escatologie), all'enigma cauto di Moro, sino a quell'ala di mondo democristiano - da Saraceno a Vanoni, al partigiano Mattei, alle nuove A.C.L.I. - che nei loro linguaggi si cimentavano con l'arduo tema dei modi e della qualità dello sviluppo nel Novecento: tutti devoti ma lontani dal degasperismo, e in vario modo convinti che c'era - inedita - una questione sociale con cui fare i conti: pesanti conti in un Paese come l'Italia. E ciò non si poteva affrontare né con i moduli del centrismo e nemmeno scontrandosi con l'anima socialista, per ciò che essa - nel bene e nel male - rappresentava di presenza e di domanda degli esclusi. S'era toccato con mano quanto costava l'urto tra cattolici e socialisti nella storia d'Italia, prima di tutto nel tragico dopoguerra del'19-'20-'21.
Quale capitalismo e come muoversi non era chiaro né nelle parole di Moro, né in quelle di Pietro Nenni. Ma tale era la questione. Come poi verrà affrontata sarà un altro discorso. Nenni era l'alleato possibile. Di più la D.C. non voleva, e forse non poteva.
Del resto nel P.C.I. c'era una figura che dentro di sé aveva una quasi uguale convinzione, anche se poi pronunciava con altri accenti e con altri corollari la parola: modernizzazione capitalistica. Non a caso, scomparso Togliatti, nel dibattito aspro che si aprì nel P.C.I. dopo quella morte, a un certo punto Giorgio Amendola propose chiaramente la trasfigurazione del P.C.I. in un nuovo Partito socialista, comprensivo delle due ali. E così sovente sulle labbra di Amendola, seppure non sempre pronunciata, tornava la parola "modernizzazione", anche con rimbrotti a pezzi del movimento operaio che non comprendevano i sacrifici necessari. Ma così si appannava l'idea di una crisi di sistema (in corso o possibile) e quindi l'ipotesi e la ricerca di una transizione, certo in termini diversi dall'economicismo semplificante del passato. Cambiava la lettura del movimento operaio, del suo senso. Giusto o no che fosse, entrava in difficoltà il suo volto di soggetto storico.
In ogni modo la sconfitta della "legge truffa" e la caduta di De Gasperi acceleravano questo discorso, e davano nuove carte a Pietro Nenni. Quali soluzioni egli avrebbe perseguito e con quale fortuna si sarebbe visto dopo.
Ma per il primo governo di centrosinistra ci sarebbero voluti ancora dieci lunghi anni, l'avvento in Vaticano di papa Roncalli, la sconfitta di Tambroni e degli avventuristi nella D.C., e la scesa in campo, da Genova a Torino, delle "magliette a strisce", cioè delle nuovissime reclute entrate nelle cattedrali della fabbrica fordista a misurarsi giovanissime con l'aspro tema del potere nell'atto lavorativo, al livello e nelle forme a cui lo venivano modulando i saperi - alti e cogenti - del secondo Novecento. E dunque il nuovo livello a cui giungeva - anche nella lenta Italia - il conflitto sociale.
Mentre da noi era in corso lo scontro sulla "legge-truffa", a Mosca il 5 marzo moriva Giuseppe Stalin. Ricordo il titolo enorme che feci sull'Unità per annunciare quella morte, e il lutto di tanti comunisti e socialisti in Italia. Non immaginavamo le nuove fratture e speranze, a cui quella morte ci avrebbe trascinato.
Cominciava la seconda metà del Novecento, con accelerazioni incredibili. Anche l'Italia dovette mettersi a correre.

“la rivista del manifesto” numero 6 maggio 2000 

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