I partigiani che nel 1946
clamorosamente tornarono sulle montagne, come qui si racconta,
nutrivano preoccupazioni fondate. I fascisti non solo furono
amnistiati, ma tornarono ad esercitare importanti funzione
nell'esercito, nella magistratura, nella polizia, nella burocrazia,
mentre prima strisciante, poi sempre più esplicita e diretta, la
repressione colpiva i partigiani. A tutti consiglio di leggere il
libro di Frassinelli e Graziano, Un'odissea partigiana,
pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli. (S.L.L.)
Agosto 46 - Partigiani a Santa Libera. A sinistra in piedi Armando Valpreda |
da ASTI
Fu la prima protesta ad
alto impatto mediatico della neonata Repubblica, con un pugno di
partigiani venuti da Asti ad asserragliarsi sulla rocca che domina
Santo Stefano Belbo, l'assedio delle forze di polizia, i giornalisti
che andavano e venivano, gli insorti che rilasciavano interviste, le
esagerazioni del caso, come quando il comandante Giovanni Rocca,
focoso combattente, disse che erano in duemila, moltiplicando per
dieci il numero degli effettivi. Ma in quei giorni di 60 anni fa, tra
il 20 e il 26 agosto, si rischiò davvero la guerra civile nel nome
di Santa Libera, la frazione di Santo Stefano posta teatralmente in
alto, sui vigneti e sul paese, dove i partigiani di Asti avevano di
nuovo impugnato le armi contro l'amnistia firmata due mesi prima dal
guardasigilli Palmiro Togliatti. Ed erano tutti, o quasi, comunisti
con tessera.
Vennero presi
terribilmente sul serio, come richiedeva la situazione. Con loro
trattò il Pci, attraverso un mitico capo come Cino Moscatelli, e
l'intero governo di unità nazionale, attraverso Pietro Nenni (De
Gasperi era in Francia per la conferenza di pace). Non riuscirono
certo a far cancellare l'amnistia che aveva posto fine a una pur
blanda epurazione dei fascisti, ma ottenero, almeno in termini
economici e ideali, qualcosa di significativo: vennero infatti
stabiliti, per successivi decreti legge, i provvedimenti economici
«minimi» per chi aveva fatto la Resistenza, dal riconoscimento del
servizio reso come servizio militare alle pensioni per le vedove e
gli orfani. È vero che parallelamente iniziò la riorganizzazione
delle forze di polizia, da cui furono esclusi quasi tutti gli ex
partigiani, soprattutto comunisti, insomma cominciò il ritorno
all'ordine. Ma la breve epopea di Santa Libera rappresentò il punto
di non ritorno in una deriva politica che avrebbe potuto avere esiti
molto diversi, e spaventosi.
Quella storia è stata
ricostruita da Laurana Lajolo, la figlia dello scrittore partigiano
che su quella rocca salì con Raf Vallone per convincere i ribelli (e
ci scappò pure una fucilata, forse l'unica della settimana, come
ricorda nel suo diario). Il saggio, frutto di dieci anni di lavoro,
si intitola semplicemente I ribelli di Santa Libera ed è
uscito qualche anno fa per le edizioni del Gruppo Abele. È in
pratica l'unica ricerca che esista in materia. Il che sembra curioso.
«Forse perché nessuno aveva interesse a enfatizzare l'episodio,
ragion per cui i documenti sono rimasti a lungo chiusi nei cassetti.
E forse perché, col tempo, si è pensato a questa vicenda come a un
piccolo fatto provinciale e lontano». Non fu così. Il dramma di
Santa Libera è stato un crinale sottile su cui ha camminato, per
qualche giorno o per qualche settimana, la storia dell'Italia
moderna. I giovani partigiani che vi erano confluiti, sotto la guida
di Armando Valpreda, erano solo la punta emergente di una profonda
scontentezza nelle file di chi aveva fatto la Resistenza.
In quei giorni gli operai
della Fiat tennero pronto un camion per raggiungere se necessario le
Langhe, ci furono manifestazioni in Toscana, dal Sud arrivarono
segnali di forte irrequietezza. La repubblica di Santa Libera non era
un episodio come tanti altri, in un paese ancora sconvolto dallo
strascico della guerra, dove molti non riuscivano a deporre le armi e
si consumavano violenze e vendette personali o politiche. Era un
segnale d'allarme. Come ricorda l'ultimo testimone, l'astigiano
Giovanni Gerbi, partigiano a 15 anni e a 17 là, sul poggio, col suo
comandante Armando, «per noi ricominciava la Resistenza. I partiti,
Pci in testa, non erano d'accordo, ma tutte le associazioni
partigiane aspettavano da mesi qualcosa del genere. Eravamo pronti».
Ma a far che cosa? Domanda senza risposta. Armando Valpreda, la mente
più lucida, stratega generoso e idealista, aveva intenzione di
tornare in Langa, semplicemente, fino a che le richieste partigiane
non fossero soddisfatte. In che modo, e come ci sarebbe potuto
rimanere, non è chiaro.
Rimanere a Santa Libera,
circondati e con una risonanza enorme, fu più la conseguenza del
caso che una scelta. I partigiani erano andati sulle colline senza
clamore, ma dato che il grosso del loro gruppo era composto da
poliziotti di Asti, che si servirono di armi e mezzi direttamente in
caserma, il questore dette subito l'allarme anche se non li fece
inseguire, forse per mancanza di uomini, forse per saggezza. Così la
notizia che «i partigiani sono tornati su» deflagrò, accendendo
speranze, incutendo timori. Dal 20 al 26 agosto, si trattò
ininterrottamente. Erano una miccia innescata, bisognava farli
scendere senza che esplodesse un grande incendio. «A parte Nenni,
che fu sempre con noi, tutti gli altri erano pronti a spararci
addosso», ricorda Giovanni Gerbi. E non è detto che esageri. «Siamo
tornati indietro perché tutti i mediatori, soprattutto quelli
comunisti, usavano lo stesso argomento: ragazzi, qui finisce come in
Grecia», cioè con una terribile guerra civile.
Alla fine, venne stilato
un elenco di 12 richieste - da cui era sparito ogni riferimento
all'amnistia - che il governo si impegnò a onorare. I partigiani
tornarono ad Asti «per evitare una guerra civile che avrebbe fatto
il gioco degli americani, degli occupanti», come scrisse Valpreda. E
anche questa identificazione la dice lunga su quali fossero allora
gli umori, quali fuochi covassero ancora. «Ci hanno convinto che
pure l'amnistia era necessaria», sospira il partigiano Gerbi. Si
consoli, sessantanni dopo ce n'è un'altra. Non proprio un'amnistia,
un indulto. «Questa è roba da niente. Allora dalle carceri uscirono
i fascisti che ci erano appena entrati. Guardi, per me Resistenza
voleva dire libertà ed eguaglianza. Adesso è passato tempo tempo.
Se ci penso, mi dispiace solo di essere stato preso in giro».
La Stampa, 26 agosto 2006
Vincenzo "Cino" Moscatelli, non Gino.
RispondiEliminaHo corretto, grazie.
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