15.9.15

Virilità. Il sesso come stupro nella Roma antica (Eva Cantarella)

Museo Archeologico di Napoli - Statuetta votiva raffigurante il dio Priapo ( I sec.d. C.)
L'amore a Roma: più precisamente, il rapporto dei romani con il sesso. Come lo vivevano, con chi lo vivevano, quali furono gli eventi politici e sociali che determinarono il loro modo di considerare la sessualità? In un volume che raccoglie cinque studi, ce ne parla Luca Canali (Vita sesso morte nella letteratura latina, Il Saggiatore), secondo il quale nella storia della letteratura romana sarebbero individuabili due periodi: quello iniziale, nel quale il sesso era slancio vitale, aspirazione alla felicità e strumento per ottenerla, e quello più tardo (iniziatosi all'età di Cesare) caratterizzato dalla stagnazione di ogni pulsione vitale ed erotica e dal presentimento della fine della vita individuale e della grandezza di Roma.
Dopo Catullo, dice Canali (vivamus, mea Lesbia, vivamus atque amemus...), il sesso finisce di essere gioia, gioco, speranza, passione, talvolta dolore, ma sempre e comunque espressione di vita. La letteratura dell’età successiva rifletterebbe quel «cimitero di valori» che era ormai la società romana. Virgilio, Orazio, Lucano, Seneca, Petronio, Tacito, Giovenale, Marziale, Svetonio, ciascuno a suo modo, esprimerebbero l’ossessione della fine, la consapevolezza della caducità dell’esistenza e dell’incombere «non esorcizzabile» della morte.
Un discorso complesso, che meriterebbe un’analisi particolareggiata della sensibilità dei diversi autori, e che qui non è possibile fare. Ma qualche considerazione generale è forse opportuna: non - certamente - per negare la veridicità del quadro della decadenza dei valori tracciato da Canali, ma per vedere se al suo interno non sia possibile cogliere, pur sempre, alcuni elementi della concezione vitale, tanto antica quanto elementare, che i romani avevano sempre avuto del sesso, e chiedersi se, nel momento della crisi, anziché dissolversi, questa concezione non sia invece sopravvissuta (come io credo), venendo ad assolvere a una nuova e tutt’altro che trascurabile funzione: quella di rassicurare il maschio romano dalle ansietà e dalle incertezze che lo travagliavano sia come uomo sia come cittadino.
Per il romano, inutile negarlo, il sesso era essenzialmente «stupro». Egli era destinato a conquistare il mondo con la forza delle armi e la superiorità della legge: la sua logica era quella del dominatore. E posto che la sua etica sessuale altro non era che un aspetto della sua etica politica, amare, per lui, significava sottomettere. Del resto, anche i poeti più raffinati concepivano l’amore come una guerra. Militai omnis amans, et habet sua castra Cupido: ogni amante è un soldato, e Amore ha i suoi accampamenti, scrive Ovidio. E il soldato romano, ovviamente, doveva vincere la guerra: per il colto, frivolo, sofisticato Ovidio, doveva vincerla in punta di fioretto, nelle schermaglie mondane, con le armi della seduzione. Ma Ovidio era un'eccezione. Ben diverso da lui, ad esempio, un autore come Orazio, che, colto da improvviso e irrefrenabile desiderio, riteneva assurdo preoccuparsi di come o con chi soddisfarlo: non cerano forse a sua disposizione, per questo, le schiave e gli schiavetti di casa, per i quali soddisfare il padrone era un obbligo? Amo Venerem facilem parabilemque. amo l’amore facile e a portata di mano.
Ben diversi da Ovidio, ancora, poeti come Giovenale e Marziale, le cui satire impietose, al di là degli eccessi, offrono purtuttavia un'immagine dell’atteggiamento popolare che contiene elementi di realtà: e quantomeno per una parte della popolazione, vale a dire le donne, è assai difficile cogliere «sentore di morte» nella loro tanto deprecata sfrenatezza sessuale. Ancora più significativi dei versi dei «poeti laureati», infine (e certamente più rappresentativi della mentalità del cittadino medio in questo caso solo maschio) sono i celebri carmina priapeia, vale a dire le composizioni anonime dedicate a Priapo, il Fallo, la cui immagine (un omino fornito di enormi genitali) troneggiava negli orti romani come spauracchio per gli uccelli che devastavano le messi e i ladri che spogliavano i frutteti. L'arma con cui Priapo proteggeva gli orti, infatti (sodomizzando per punizione i ladri), era l'arma di cui il romano era più fiero, quella che consentiva anche a lui, come a Priapo - oltre che di sottomettere le donne - di punire chi gli aveva fatto un torto e di umiliarlo dimostrandogli la sua virilità. Quella virilità da stupratore così profondamente romana da non poter essere ripudiata neppure da un poeta romantico come Catullo, pronto (quantomeno a parole) a sodomizzare per vendetta Furio ed Aurelio, gli amici traditori che avevano osato insidiare il suo amatissimo Giuvenzio (pedicabo vos et irrumabo...).
Ma cosa accadde di questa concezione della virilità nel momento della crisi, quando Roma divenne ingovernabile, le donne si emanciparono e l'Impero cominciò a mostrare i sintomi della inevitabile decadenza? A ben vedere, il maschio romano, lungi dal modificare l'immagine di sé che aveva sempre avuto, a questa immagine si aggrappò come a un'ancora di salvezza, facendo di essa il baluardo e il simbolo stesso della sua pericolante personalità. Quale che sia il giudizio che di questa virilità si voglia dare, è difficile non cogliere il valore vitale (o quantomeno il tentativo di attribuirle questo valore), che essa giocò proprio nei secoli della crisi. Mitizzando la sua virilità il romano esorcizzava la paura della fine. E a dimostrarlo interviene la storia della repressione dell’omosessualità: anche quando, ad opera degli imperatori cristiani, venne messa in atto una politica che tentava di estirpare il vizio «contro natura», i soli omosessuali puniti furono quelli passivi, colpevoli di aver abdicato alle loro prerogative virili. Quelli attivi, i dominatori, restarono per lunghi secoli impuniti.


“l'Unità”, ritaglio senza data, ma 1980

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