11.10.15

Arnaldo Momigliano. Storia senza innocenza (Luciano Canfora)

Arnaldo Momigliano (1908 - 1987)
«Col passare delle settimane il significato della caduta di Mussolini sta precisandosi. La caduta di Mussolini non ha segnato la fine del fascismo».
Con questa osservazione Arnaldo Momigliano apriva, da Radio Londra, la prima delle sue Conversazioni sul nazismo (tuttora inedite). Era il 15 agosto del 43: nel pieno dei quarantacinque giorni badogliani, quando viva era la discussione tra le forze antifasciste sul significato degli avvenimenti in corso. L’ammonimento a non considerare chiuso il ciclo del fascismo veniva in quel momento dalla sinistra (azionisti, comunisti ecc.), mentre la tendenza dei moderati era, com’è noto, a considerare chiusa la «parentesi». Luigi Einaudi riprendeva la collaborazione al «Corriere della Sera» il 22 agosto del 43 con le parole Heri dicebamus, come se davvero - chiusa la parentesi fascista - «ieri » fosse il lontano 1925, quando Albertini era stato estromesso, e con lui i suoi col-laboratori, dal grande quotidiano benpensante. Non era soltanto una disputa storiografica, come divenne anni dopo, era il dissenso tra chi pensava di rimettere in piedi l’Italia liberale prefascista e chi, puntando ad una più avanzata democrazia, pensava che col fascismo fosse irrimediabilmente morta anche l’Italia prefascista. Dissenso profondo e capitale, che si ripropose all’apertura della Costituente (Croce - Parri). La discussione è viva anche a Radio Londra, dove si alternano le opinioni trionfalistiche di chi parla del fascismo come ormai liquidato e le opinioni contrarie, come quella espressa da Momigliano e dal pugnace Candidus: «Il fascismo senza Mussolini è pernicioso quanto il fascismo con Mussolini».
Gli anni di Londra non erano stati facili, in principio. Momigliano non ha raccontato, che io sappia, le vicende di quegli anni (non amava l’abito vittimistico); ha, semmai, ricordato sempre con passione e rimpianto quelli che rimasero e finirono (i molti Finzi-Contini della borghesia ebraica italiana, cui apparteneva la famiglia dello storico) nelle camere a gas.
C’è però uno scritto suo felicissimo, la prefazione (novembre 1961) alla Rivoluzione romana di Syme, che accenna, su di un piano non immediatamente biografico, alle difficoltà di comprensione tra gli esuli dei paesi dominati dal fascismo e l’ambiente inglese (nel caso particolare si tratta dell’ambiente alto-accademico). Momigliano rievoca il proprio incontro con il libro di Syme appena pubblicato, e con l’autore, nell’estate del ’39, «quando oramai la guerra era stata dichiarata e le notti si facevano sempre più lunghe su Oxford immersa nell'oscurità». Al di là del fascino trascinatore, che qualunque lettore della Rivoluzione romana ben conosce, il libro pose all’esule serie difficoltà: «la ragione prima di queste difficoltà - scrive Momigliano ventidue anni dopo - è molto semplicemente che tra il 1938, in cui il libro fu scritto, e il 1939 in cui fu pubblicato la situazione era talmente cambiata da creare uno squilibrio tra l’animo dello scrittore e quello del lettore.
Ciò che nel ’38 era segno di volontà implacabile di vedere chiaro nelle intenzioni dei dittatori, contro le illusioni degli appeasers, era ormai insufficiente come presa di posizione in una guerra da cui, per bene o per male, doveva emergere una società nuova» (espressione quest’ultima di per sè molto significativa e agli antipodi dello statico heri dicebamus). Detto in modo più aperto: il libro di Syme metteva, con qualche compiacimento, a nudo il vero volto dei dittatori e la natura «alla duca Valentino» del loro potere, ma non era affatto un libro antifascista. Giudizio tanto più significativo in quanto ripensato tanti anni dopo.
Questa considerazione su Momigliano storico in esilio e sulla sua duplice esperienza (politica e culturale) mi porta a proporre una definizione di lui che certo non gli sarebbe piaciuta: fu, a suo modo, in un modo che i sectatores potevano anche non intendere, uno storico militante. È qui la ragione per cui, nella sua indagine (non solo nelle dichiarazioni di principio), ricerca concreta e storia degli studi sono sempre stati aspetti indissolubili di un unico lavoro.
Di qui la sua polemica, quando apparve (1959) la traduzione italiana della Storia greca di Berve senza che ci si ricordasse di studiarne le matrici culturali, contro «il vezzo di prendere la storia della storiografia come passatempo domenicale, per quando si è stanchi del vero lavoro storico e non si ha energia sufficiente per leggere i libri, ma solo per sfogliarli». Di qui la sua costante attenzione alle vedute e ai comportamenti politici dei protagonisti dell’antichistica moderna: dalle angosce di Gibbon per la ribellione delle colonie americane, al carattere «junker prussiano» del Pindaro di Wilamowitz, alla genesi nel trauma della rivoluzione russa della Storia economica e sociale dell’impero romano di Rostovcev, al «tarlo» - come ebbe a scrivere - introdotto dalla problematica culturale del fascismo persino nell’opera di studiosi che ne erano lontani, come ad esempio Rostagni.
Ma militante fu anche in un significato più profondo, più strettamente attinente, se possibile, al mestiere di storico. Si può dire infatti che l’opera di Momigliano sia stata costantemente pervasa da un'inquietudine per le sorti della storiografia, l'allarme per i pericoliche insidiano la storiografia (attività di per sè «politica» in sommo grado). Da ultimo la formula con cui esprimeva il suo allarme era quella del rischio rappresentato - come andava ripetendo - dai «retori». «Gli storici hanno oggi da decidere se intendono abbandonare il territorio della ricerca storica ai retori, tradizionali collaboratori degli storici, ma la cui partecipazione al lavoro storico è sempre stata fonte di contestazione»: è la conclusione della premessa (giugno 1984) alla raccolta Sui fondamenti della storia antica. Che vuol dire qui «retorica»? Vuol dire l’ozioso riesporre ricerche fatte da altri, per esempio ridire con terminologia aggiornata ciò che già si sapeva (è la cifra del fenomeno Annales e della cosidetta «nuova storia»; un mondo col quale Momigliano ha avuto rapporti per lo più rispettosamente critici, e da ultimo di freddezza). Ma coinvolge anche l’invadente ideologismo dogmatico, che minaccia di sostituirsi all’indagine.
Se, in conclusione, ci si chiedesse, di fronte all’immane lavoro di indagine e di critica condotto per oltre mezzo secolo da Momigliano con la incessante serie dei suoi Éssais, perchè gli studi storici sono diversi dopo di lui, credo che a buon diritto potremmo rispondere che dopo di lui abbiamo un’idea diversa del nostro rapporto con le fonti. Ci poniamo molte più domande di fronte ai superstiti racconti della storiografia, per esempio classica. Siamo più adulti di fronte alle fonti perché abbiamo imparato a chiederci ad ogni passo: «come e da chi lo ha saputo», «come ha colmato i vuoti dell’informazione», «per quale pubblico parlava o scriveva». Non a caso, perciò l’autore su cui più a lungo è ritornato è stato Erodoto, l'autore-archetipo, la cui opera era passibile di sviluppo in molte direzioni (a cominciare dalla coniugazione di storia e geografia che i “politici”, da Tucidide in poi abbandonarono). «La problematica storica - scriveva nella voce Storiografia dell’ultimo Supplemento dell’«Enciclopedia Italiana» (1978) - non è mai, se non al caso limite, uno studio dei fatti in quanto tali, ma uno studio delle fonti in quanto in un modo o nell’altro ci diano i fatti». A chi veda in questa formulazione tracce di filosofia idealistica (o neo-critica), si dovrebbe, credo, far osservare che proprio a quell’orientamento di pensiero (Dilthey rimane una vetta) si deve il massimo incremento della riflessione in questo campo. E comunque vi è anche il riflesso delle prudenze della nuova scienza del XX secolo.
Come Wilamowtiz e Pasquali, Momigliano fu temperamento essenzialmente «ellenistico». È quello il mondo che ha sentito con maggiore profondità; quello dell’intreccio delle culture (non solo le tre culture-guida, greca, ebraica e romana, ma anche iranica), quello della «mescolanza», «l’evo moderno dell’antichità», come scrise Droysen nelle Lezioni di Istorica. E perciò forse il suo primo appassionamento storiografico fu, dopo il cimento «tecnico» sui libri dei Maccabei, appunto il «primo» Alessandro di Droysen. Ma in Momigliano questo interesse prevalentemente non nasceva soltanto dal fascino delle culture complicate e «moderne» ma, in primo luogo, dal costante bisogno di scoprire gli intrecci tra mondo politico e dimensione religiosa (sia delle masse che delle èlites): le «fedi» degli uomini, non come segno della loro inevitabile «follia» (come in fondo le considerava Gibbon) ma come parte essenziale dell’«umano troppo umano» che è la pasta, la creta, onde è fatta la storia. «Le malattie, la morte, l'amore, la crudeltà e la follia – scrisse una volta in polemica con l'accademico dell'Urss Diligenskij – sono altrettanto reali fattori storici quanto l'ingiustizia sociale”.

“il manifesto”, ritaglio senza data, ma settembre 1987

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