11.10.15

Cicerone on/off. Una riabilitazione inglese (Massimo Raffaeli)

Musei Capitolini - Cicerone (particolare)
Sono secoli che si infierisce su Marco Tullio Cicerone. Dalla querelle des anciens et des modernes, il suo nome è sinonimo di retorica e antiquariato, della impotenza a essere altro da una sintesi scolastica della latinità: viene preso di regola per un avvocato senza scrupoli, buono per tutte le cause e tutte le stagioni, per un politico doppiogiochista (homo novus rinnegato, borghese affetto da invidia e sudditanza nei confronti dell’aristocrazia), per un filosofo privo di originalità e a rimorchio della tradizione greca. Tra Otto e Novecento le quotazioni addirittura precipitano: Theodor Mommsen nella Storia di Roma lo dipinge come una banderuola, Jéròme Carcopino, dimentico del proprio passato di collaborazionista, ironizza sulle sottigliezze del Grande Mediatore regolarmente
sconfitto mentre Giorgio Pasquali, spirito troppo sarcastico per potersi affezionare all'emblema
del decoro quirite, giunge a pubblicare uno fra i pochi libri che in età moderna ne rivaluti appieno la figura, ma lo fa quasi solo per il gusto di poterne demolire l’oggetto (si veda Cicerone e i suoi amici, 1867, di Gaston Boissier, vivido ritratto di un’epoca dai forti chiaroscuri, poi ripreso da Rizzoli nel 1988 con una bella prefazione di Emanuele Narducci). E nientemeno Carlo Emilio Gadda si riserva il colpo di grazia nel racconto San Giorgio in casa Brocchi (1931-’52), dove ormai Cicerone, o meglio la sua opera più solennemente impostata, il senile De officiis, corrisponde al sentire di una borghesia avara, ipocrita, e tuttavia pasciuta con gli avanzi del «minestrone di fagioli stoici, verze accademiche e carote peripatetiche»; qui gli epiteti ingiuriosi si sprecano, si fa riferimento alla parlantina, a una scodinzolante vanità, e lo si bolla come araldo dell’ideologia oligarchica e come onesta vedova del legittimismo fondiario. Ma va da sé che costui per i moderni è bersaglio troppo grande per non i riuscire, al tempo stesso, un bersaglio troppo facile.
Se la tradizione dell’ostilità ne ha reso di senso comune i difetti, colui che invece non ci aspetteremmo nel collegio di difesa, e cioè Sebastiano Timpanaro (editore del De divinatione, Garzanti 1988), invitava tempo fa a distinguere, per valutarle a una a una, tra almeno quattro facce di una medesima fisionomia che, se guardata alla spiccia, rischia lo stereotipo o una paradossale evanescenza: vale a dire che vi si sovrappongono ora le maschere del politico e dell’avvocato ora quelle del filosofo e dello scrittore.
In particolare delle prime tre si occupa la biografia di Anthony Everitt Cicerone Vita e passioni di un intellettuale (a cura di Lorenzo Argentieri, Carocci editore), un libro dichiaratamente scevro di ambizioni specialistiche ma che gode di un’ottima documentazione e attinge un buon livello divulgativo, grazie a uno stile sobrio la cui linearità è confortata in italiano dal lavoro di Argentieri, specie nel trattamento delle fonti classiche. Everitt si propone un puntuale esercizio di riabilitazione, e conclude: «Ai nostri occhi Cicerone fu uno statista e un servitore della repubblica di eccezionale abilità: aveva doti amministrative di prim’ordine e fu il più grande oratore dei suoi tempi. (...) Il fatto che la sua carriera sia finita in modo rovinoso e che per molti anni sia stato solo spettatore degli eventi non è dovuto a una mancanza di talento ma a un eccesso di principio. (...) Cicerone ebbe fama di uomo esitante e pronto ai compromessi. È vero che a volte ebbe difficoltà a decidere quale linea prendere, ma le sue mosse furono sempre tattiche e non vendette mai le sue convinzioni. Il suo scopo fondamentale, ripristinare i valori politici tradizionali, rimase invariato per tutta la vita. (...) Ovviamente Cicerone inseguiva una causa persa».
In altri termini, Everitt riporta Cicerone al presente e ne fa il simbolo di ogni età di crisi, anzi un campione di «nicodemismo», costretto a soggiacere fra una tavola di valori scolpiti nel bronzo e una sequenza di azioni slegate e presto risucchiate entro la dinamica dello stato di cose presenti, le res durae. (Questo ‘suo’ Cicerone sembra fatto apposta per legittimare la doppiezza delle attuali classi dirigenti, dove spesso l’enfatico richiamo alla democrazia confligge con un tacito ricorso alla Realpolitik). Da un lato c’è dunque l’ideologo della pacificazione e dell’interclassismo (la cosiddetta concordia ordinum), che si lascia proclamare volentieri Padre della patria, il fautore di una unità nazionale stretta ai costumi della antica repubblica; dall’altro, un senatore spregiudicato, la cui parabola è così tortuosa da sembrare imperscrutabile: è l’uomo che fa condannare Verre, corrotto amministratore di Sicilia (75 a.C.), che muove guerra all’avventuriero Catilina (63 a.C.), ma è pure l’uomo che nei vent'anni successivi al proprio consolato oscilla fra i signori della guerra, che arrogandosi l’eredità della repubblica se ne spartiscono di fatto le spoglie.
Nel corso delle guerre civili, Cicerone funge da casella vuota e da bersaglio mobile: è contro Silla ma dissimulando la simpatia per Mario, contro Cesare senza essere di Pompeo, coi cesaricidi però diffidandone e cautamente avvicinandosi al delfino Ottavio. La sua morte a Gaeta per mano dei sicari di Antonio (43 a.C.) somiglia infatti a un suicidio simulato: racconta Tito Livio, un altro che per lui non stravedeva, come si lasciasse catturare opposita cervice, porgendo la testa. Allora è difficile seguire fino in fondo Everitt e avallare le astuzie nicodemiche di uno statista che, senza essere un reazionario e nonostante la tempra morale, rifiuta con ostinazione di vedere il male che sul serio annienta la repubblica: la mancata riforma agraria, il gretto attaccamento al diritto di proprietà da parte degli stessi nobili di cui ama ritenersi un fiore all’occhiello e il paterno consigliere (Lo stesso Timpanaro ricorda: «Ma la coscienza della crisi non lo indusse mai a staccarsi dalla fedeltà a un’oligarchia ormai incapace di governare lo stato, e la sua condizione di homo novus, di cui fu orgoglioso, fu da lui interpretata nel senso di portare energie fresche, e anche una maggiore onestà amministrativa, a un regime che bisognava però, a tutti i costi, conservare»). 
Forse Cicerone è nostro contemporaneo proprio in ciò che Everitt delibera di escludere dal suo ritratto. È il teorico che demolisce il formalismo oratorio bypassando «atticismo» e «asianesimo» (lo snobismo della povertà, la moda del barocco) per formulare un’arte del discorso dove sapere filosofico e cultura divengano necessità di lingua e stile (vedi i dialoghi, fra il 55 e il 46, De oratore, Brutus, Orator), ed è infine il grande autobiografo, lo scrittore delle epistole all’amico Attico e ai familiari, che, se non raggiungono la profondità di quelle poi spedite a Lucilio da Seneca, discoprono la vita quotidiana a Roma nel gran secolo e, soprattutto, incarnano un modello che nel mondo antico non conosce eguali, per plasticità e ricchezza di registri. Forse è lì che si dovrebbe leggerlo. Ed è lì che suona vera la battuta del nemico Tito Livio quando scrive: per tessere la lode di Cicerone ci vorrebbe un altro Cicerone.


“alias il manifesto”, ritaglio senza data, ma 2005

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