Il numero 184/185 di “Aut
aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione
degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e
curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego
Lanzaa, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il
quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni
assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La
paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e
spirito del sacrificio). Riprendo qui il testo di Vegetti: può
essere letto come preludio a molti studi svolti in varie sedi nel
trentennio abbondante che è seguito a quell'importante numero della
rivista filosofica fondata da Enzo Paci. (S.L.L.)
L'Auriga di Delfi |
C’era una volta il
classico. Archivio delle forme belle, infanzia felice dell’umanità,
archeologia implicante una teologia, territorio della nostalgia per
l’intellettuale europeo (in quanto tempo della trasparenza e
dell’efficacia perdute). Tutto questo aveva in qualche modo
resistito ad aggressioni violente: Nietzsche, naturalmente, e i meno
noti antropologi anglosassoni del primo Novecento (da Jane Harrison a
F.M. Cornford). Aveva resistito grazie ad una duplice congiuntura
culturale. Da un lato, la potenza della filologia classica tedesca,
da Wllamowitz a Jaeger, capace di presentarsi insieme come un modello
di scienza positiva nel dominio incerto delle
«Geisteswissenschaften», e come lo scavo rigoroso di valori
esemplari per la moderna epoca della crisi. Dall’altro, l’uso
filosofico della filologia in campo heideggeriano: la messa in luce
di un cominciamento smarrito, lo scavo della parola come scheggia di
verità, affioramento dell’essere presto occultato.
A questo privilegiamento
del classico non erano naturalmente estranee, nell’Europa fra le
due guerre, potenti ideologie nazionaliste ed anche razziste. Più
tardi, esso venne gradualmente banalizzandosi nell’ideologia
scolastica della superiorità della cultura umanistica: decaduto ma
non detronizzato, il classico veniva tenuto al riparo dai movimenti
più vivi della cultura (dalla sociologia all’antropologia, dalla
linguistica alla psicanalisi), relegandolo di fatto a languire in un
ghetto dorato. Così, fino agli anni Cinquanta, nelle università si
continuava a leggere la Paideia Jaegeriana; nei licei, i professori
di greco e latino continuavano a godere di uno speciale prestigio (di
cui era sempre più difficile trovare le ragioni, come testimonia il
dibattito italiano sull’insegnamento delle lingue antiche).
Così indebolito, il
classico non poteva attraversare indenne l’ondata dello
strutturalismo antropologico e marxista che si propagava, soprattutto
da Parigi, alla metà degli anni ’60; già prima, aveva sofferto la
corrosione dell’indagine neopositlvistica.
Che cosa ha lasciato
dietro di sé la sua obsolescenza, nella cultura recente?
Non proprio un vuoto, ma
un territorio diventato opaco da luminoso che era, i cui specialisti
godevano più di rispetto (per la loro tecnicità filologica e per il
prestigioso passato) che di ascolto effettivo; e neppure lo
desideravano, presi com’erano tra l’imbarazzo per le vecchi
euforie classiste e le novità dei tempi, che parevano escluderli dai
circuiti della comunicazione culturale. Sono passati, così, anni
diisolamento, di sordità e mutismi reciproci. Il ricorso all’antico
(e al medioevo) diventava sempre più — nei testi destinati al
dibattito culturale — esornativo e retorico, memoria scolastica o
zeppa inevitabile.
Ma si trattava di una
impermeabilità solo apparente. Caduto lo schermo del classicismo,
gli specialisti si trovavano di fronte ad un oggetto in un certo
senso nuovo e anche eccitante, l’antico; e cominciavano a guardarsi
attorno per integrare i loro strumenti ben collaudati, ma ripetitivi,
con attrezzi più promettenti: c’entrava per qualcosa,
probabilmente, l’accelerata circolazione delle idee, delle scelte,
delle domande tipica della seconda metà degli anni ’60.
Incominciarono, allora, a
cambiare le sintassi: si sperimentarono (in modo non sempre
temperante) quelle strutturaliste, marxiste, psicanalitiche; cambiò
soprattutto lo sguardo, che tendeva ad avvicinarsi a quello
dell’antropologo (allora, oltre Levi-Strauss, si riscoprivano Weber
e Polanyi); cambiarono, di conseguenza, i punti di ascolto, in parte
gli stessi oggetti d’indagine, i parametri dell’interesse (che
sostituivano la scala classicista dei valori); si rinnovò in
parallelo il dominio contiguo e poco frequentato del medioevo, da cui
venivano nuovi stimoli di ricerca.
L’attenzione verso il
territorio dell’antico (anche se non più classico) non si era
evidentemente mai del tutto spenta, se queste sperimentazioni hanno
via via trovato, nella circolazione culturale e nella produzione
editoriale, un credito persino inatteso.
Ma non innaturale, se si
pensa all’effetto di choc e di stimolo prodotto dall’interrogazione
di un mondo culturale così ricco ed illustre secondo due approcci,
talvolta intrecciati: il primo, consistente in una lettura integrata
di «mito e pensiero» come elementi di una «cultura» in senso
antropologico (strutturalista o genetica che fosse questa
antropologia); il secondo, nell’interpretazione di quella stessa
cultura come esempio forte del funzionamento dell’ideologia - in
società precapitalistiche (di cui intanto si studiavano i modi di
produzione e riproduzione). Non erano novità da poco, e meritavano
l’interesse (che si estendeva anche, in certi settori, a qualcosa
che nuovo non era affatto, cioè alla riproposta dello scavo
filologico come capace di portare diretta-mente in luce epifanie di
qualche implausibile verità).
Questo interesse poteva,
certo, e può limitarsi alla sostituzione della venerazione per il
classico con i piaceri di un distinto esotismo, il cui paesaggio non
si colloca più nelle foreste amazzoniche o in arcipelaghi del
Pacifico, ma tra le rovine di Delfi o dell’acropoli di Atene.
Scoprire il diverso là dove si supponeva pacificamente l’identico,
leggendo ad esempio il sacrificio greco non come un preludio a quello
cristiano ma nel contesto di pratiche alimentari fortemente
ritualizzate; o, all’opposto, vedere nel coltello del
macellaio-sacrificatore uno dei padri fondatori della nostra
tradizione scientifica: altrettante esperienze di lettura non prive
di una certa capacità di suggestione.
Ma c’è, forse,
qualcosa di più, qualcosa che stimola domande pertinenti allo stesso
lavoro teorico. Come si gioca, in queste zone determinate, la partita
fra i poteri e i saperi? Come si articolano mito e rito, quali
configurazioni e metamorfosi assume l’area del sacro? Come funziona
la rete delle normalizzazioni e degli interdetti, come si dislocano
saperi alti e bassi, forti e deboli? Quale ruolo svolgono, rispetto
agli uni e agli altri, immaginario e metafora? Ancora, a un livello
diverso: quali linguaggi si possono usare, e a quali condizioni, per
parlare di questi problemi all’interno di campi culturali e sociali
del tutto eterogenei rispetto al nostro?
Non è tutto, ma già
questo elenco può risultare ambizioso e quasi eccessivo. Tuttavia,
serve almeno a segnalare un perimetro di questioni della razionalità,
e direzioni dell’inchiesta teorica, al cui interno uno scambio fra
esperienze diverse di lavoro culturale può tornare ad essere
sensatamente possibile.
“il manifesto”, 24
settembre 1981
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