12.10.15

Il profilo della storia. Cleopatra e Iside (Gian Paolo Castelli)

La statua di Cleopatra all'Hermitage di San Pietroburgo
«Cleopatra, sebbene sconfitta e fatta prigioniera, venne comunque glorificata, dato che i suoi ornamenti si trovano consacrati nei nostri templi e lei stessa, effigiata in oro, può essere vista nel Tempio di Venere». Con queste parole, scritte circa 250 anni dopo la morte della regina egizia, lo storico Cassio Dione sembra sancire un’inattesa vittoria della protagonista femminile degli anni forse più decisivi per la storia romana: il periodo che ha segnato la fine dello stato repubblicano e l’inizio del principato. Tra il 51 a.C., anno della sua ascesa al trono accanto a suo fratello Tolemeo XIII (lei aveva circa diciassette anni, lui solo dieci), e il 30 a.C., quando si tolse la vita, Cleopatra e la corte di Alessandria si trovano infatti coinvolti in modo cruciale con il destino delle due coppie allora in lotta per il potere: Pompeo e Cesare prima, Antonio e Ottavio (non Ottaviano, come ci si ostina a chiamarlo) poi.
Il fascino che la regina-faraone esercitò sui contemporanei, divisi tra ammiratori e detrattori, le è sopravvissuto assai più a lungo di quanto Cassio Dione avrebbe potuto immaginare, attraversando l’antichità e giungendo fino ai nostri giorni. E non è certo la forma del suo naso l’oggetto principale di tale interesse; nei due anni che passò a Roma nella villa di Cesare in Trastevere, ospite assieme al fratello-sposo e al figlio nato dalla sua relazione con il dittatore, lo sfarzo della sua corte stupì i Romani non meno della sua intelligenza, della sua cultura e della sua ironia. La teatralità del suo suicidio non farà che accrescere la sua fama: «I cortei furono splendidi [...] tra essi si distinse, per spesa e magnificenza, quello del trionfo sull’Egitto. Tra le varie figure spiccava quella che rappresentava Cleopatra distesa sul divano in punto di morte, così che si poteva vedere la regina insieme ad altre prigioniere e ai figli [avuti da Antonio], Alessandro detto anche ’Sole’ e Cleopatra detta anche ’Luna’, spettacolo nello spettacolo». E’ la descrizione, sempre di Cassio Dione, del triplice trionfo sull'Illiria, sull’Egitto e «per la vittoria di Azio», celebrato da Ottavio nell’agosto del 29 a.C. e con cui viene sancita la fine della dinastia Tolemaica.
Tra i successori di Alessandro Magno, i Tolemei saranno i primi a riconoscere la nascente potenza di Roma e gli ultimi a piegarsi alla sua avanzata in Oriente. Ma soprattutto, Alessandria e la sua corte rappresenteranno il centro di maggiore influenza sulla cultura e la società romana, e più in generale sull’intero bacino del Mediterraneo. Fondata nel 332 a.C. alla foce più occidentale del Nilo da Alessandro Magno dopo la sua conquista dell’Egitto, e strappato ben presto a Menfi il ruolo di capitale, con il suo Museo, la sua enorme Biblioteca, la stessa tomba monumentale di Alessandro (previo furto del suo cadavere da Babilonia da parte di Tolemeo I), la grandiosità dei suoi edifici, la perfetta articolazione urbanistica e la moltitudine dei suoi abitanti (superata solo da Roma), Alessandria divenne ben presto il punto di riferimento per scienziati, filosofi e letterati. In essa la millenaria sapienza egizia seppe fondersi con la più dinamica cultura greca, dando luogo a una commistione di elementi culturali, politici e religiosi.
Ed è proprio per questo che fa sorridere l’ostinazione con cui il giovane Ottavio, che ormai si fa chiamare «Gaio Cesare figlio del divino/dio» (era stato adottato per testamento da Giulio Cesare, che lui stesso aveva provveduto a far proclamare divus), dopo la celebrazione del trionfo, fa coniare una serie di denari sul cui verso figura un coccodrillo (simbolo dell’Egitto) e la scritta AEGVPTO CAPTA («per la conquista dell’Egitto»): potremmo tranquillamente riprendere il noto verso di Orazio Graecia capta ferum victorem cepit («la Grecia, conquistata, conquistò il fiero vincitore») e sostituire l’Egitto alla Grecia. Perché Roma, per diventare grande, non solo si grecizzò ma si «egittizzò», anche; o, forse meglio e più sinteticamente, si «alessandrinizzò». E - solo in apparenza paradossalmente - Ottavio-Cesare-Augusto, che aveva condotto la sua personalissima battaglia per il potere contro Antonio accusandolo di essere diventato un monarca orientale, giocò un ruolo decisivo in questo processo. Innanzi tutto, perché di altri «figli di dio» (in attesa dell’arrivo di Gesù di Nazareth) non c'è traccia nell’antichità al di fuori delle titolature ufficiali dei faraoni, a prescindere naturalmente dalle figure mitiche; poi perché Augusto sceglierà già molto presto quale suo nume tutelare Apollo-Sole, divinità non romana - anche se già da tempo accolta per il tramite greco - e così pericolosamente vicina all’identificazione dei faraoni con Horus-Ra (Antonio aveva invece scelto prima Ercole e poi Dioniso-Bacco), costellando le sue numerose costruzioni di simboli e attributi apollinei nonché, fatto inaudito a Roma ma non certo ad Alessandria, edificando un tempio ad Apollo in stretta connessione con la sua casa sul Palatino, che veniva così a configurarsi come l’ala di rappresentanza della sua residenza.
A questo esplicito legame con il Sole (senza più traccia di Apollo) riconducono ancora una volta i due obelischi che Augusto farà trasportare da Eliopoli («la città del Sole») nel 10 a.C., collocandone uno sulla spina del Circo Massimo (dove erano presenti altre statue o sacelli di divinità) e servendosi dell’altro come gnomone per il suo gigantesco orologio solare nel Campo Marzio. Dice l’iscrizione di dedica; «L’imperatore Cesare Augusto, figlio del divino Giulio, pontefice massimo [... seguono altre cariche da lui rivestite, con la tipica parvenza di legalità repubblicana che contraddistingue il suo impero], dopo aver conquistato l’Egitto [AEGYPTO CAPTA, ancora dopo 20 anni!] al potere del popolo romano, dedicò al Sole». Altri due obelischi senza iscrizioni né geroglifici, inoltre, li collocò ai lati d’ingresso del suo inaudito mausoleo, sempre in Campo di Marzio (ricco, per altro, di decorazioni egittizzanti, che dilagarono sempre più a partire dal suo regno). Se torniamo al passo da cui siamo partiti, Dione ci ricorda che, per celebrare il suo triplice trionfo, «il Figlio di Dio» aveva decorato con le spoglie dell’Egitto la statua della Vittoria da lui collocata nella nuova sede del senato, la Curia Giulia (iniziata da Giulio Cesare e da lui inaugurata proprio in quell’occasione), come pure il nuovo Tempio del Divino Giulio e addirittura il Tempio della Triade capitolina, dopo averlo spogliato di tutte le dediche precedenti (la statua d’oro di Cleopatra era invece già stata collocata da Cesare nel Tempio di Venere Genitrice da lui costruito al centro del suo nuovo foro, anche questo un fatto inaudito: tutte le statue di Cleopatra vennero però risparmiate dal vincitore, mentre quelle di Antonio furono distrutte). E i grandiosi lavori di costruzione realizzati da Agrippa per volontà di Augusto, soprattutto nel Campo Marzio, che cercavano di trasformare Roma in una città dall’impianto ellenistico, non discendevano forse dalla meraviglia provata dal giovane Ottavio-Gaio Cesare alla vista di Alessandria, che lo spinsero a risparmiare alla città qualsiasi distruzione e a perdonare in blocco la sua popolazione?
«Le divinità un tempo egizie ora sono romane» e «Tutto il mondo giura ora su Serapide»: è questa la sconsolata constatazione di due apologeti cristiani (Minucio Felice e Tertulliano) a cavallo tra il II e il III secolo. Ecco un altro aspetto della contraddittoria vittoria dell’Egitto su Roma. A partire almeno dal II secolo, infatti, alcune divinità egizie - o, meglio, alessandrine - avevano cominciato a diffondersi in Italia: tra di esse Anubi, Arpocrate, Serapide e, soprattutto, Iside. Resistenze da parte della classe senatoriale conservatrice portarono talora a interdizioni di questi culti, alla crocifissione dei loro sacerdoti (!) e alla distruzione (non sempre attuata) dei santuari: si ripeté insomma quello che era già avvenuto nel III secolo a.C. nei confronti del culto di Bacco e quello che si ripeterà più tardi con il cristianesimo. Culti considerati potenzialmente eversivi, in quanto seguiti soprattutto dalle classi più umili e che mettevano in discussione la struttura consolidata della società, venivano eccezionalmente ostacolati. Ma si trattò di episodi isolati e, come dimostra il successo di questi culti, del tutto inefficaci. Il sistema religioso tradizionale romano subirà la stessa sorte toccata a quello della polis greca: con il disgregarsi dei vincoli che univano saldamente la comunità, ripartendo la gestione della res publica tra il Senato e il Popolo (SPQR) e con la progressiva perdita di potere reale di quest’ultimo, perdeva di senso anche la struttura prevalentemente rituale della religione romana, finalizzata al mantenimento della «pace con gli dèi» e alla garanzia di liceità dell’intervento umano sul «naturale». Non esistendo più una comunità, ne derivavano degli individui, che invece di interessarsi alla sorte di Roma erano ormai ineluttabilmente interessati alla propria sorte, qui ed ora e nella vita dopo la morte.
I Romani, non certo casualmente, sembrano ripercorrere esattamente lo stesso cammino fatto dai Greci del periodo post-classico: si affidano alle «filosofie della felicità» (epicureismo e stoicismo), a vari culti misterici e a divinità «provvidenziali» (Tykhe, Fortuna, Iside). Tutto ciò, fra l’altro, in un’ottica di progressivo enoteismo, cioè della convinzione che il concetto di divino è fondamentalmente «unico», anche se può assumere diverse forme (a differenza del monoteismo, dove il vero dio è «uno solo»); si tratta del resto della stessa temperie in cui prospererà e risulterà poi vincitore il cristianesimo (non senza aver assimilato numerose caratteristiche di alcuni di questi culti). Tra queste divinità, insieme al Mitra di origine persiana. l’Iside alessandrina - nelle cui vesti Cleopatra amava presentarsi - assume nel mondo romano in ruolo predominante e una diffusione capillare.
È l’Iside madre del piccolo Horus-Arpocrate, che allatta in grembo secondo l’iconografia poi ripresa per Maria (come Cleopatra-Iside allatta Cesarione-Horus in alcune statuette o su alcune monete cipriote); è l’Iside sorella e sposa di Osiride-Serapide, il dio che muore e rinasce ogni anno grazie al suo intervento; è Iside dei «patimenti», che ha sofferto e soffre come soffre il genere umano e può essere invocata proprio in virtù di tale compartecipazione; è l’Iside protettrice dei naviganti e dei mercanti, principali attori del suo culto nei vari porti del Mediterraneo; è Iside da invocare in ogni occasione di difficoltà e i cui riti misterici garantiscono la trasformazione della propria vita e la felicità nell’aldilà; è Iside invocata in litanie che ricordano le litanie mariane e in generale ruolo di intermediatrice che la Vergine assumerà ne1 cristianesimo: «Eccomi, spinta dalle tue preghiere: io, madre dell’intera natura, signora di tutti gli elementi, progenie primordiale delle generazioni, divinità suprema, regina dei Mani, prima dei celesti, volto unico degli dèi e delle dee; io, che le vette luminose del cielo, le brezze salutari del mare, i silenzi compianti degli Inferi, dispenso secondo i miei cenni. La mia potenza unica dal multiforme aspetto, con rito diverso, con nome molteplice, il mondo intero venera: i primigeni Frigi come Madre Pessinunzia degli dèi, gli autoctoni Attici come Minerva Cecropia, i fluttuanti Cipri come Venere Pafia, i Cretesi arcieri come Diana Dittinna, i Siculi trilingui come Proserpina Stigia, gli arcaici Eleusini come Cerere Actea, altri come Giunone, altri ancora come Bellona, chi come Ecate, chi come Ramnusia, e gli Etiopi illuminati dai bassi raggi del dio Sole nascente e gli Egizi potenti per prisca dottrina - adorandomi con cerimonie appropriate - mi chiamano col mio vero nome Regina Iside».


“il manifesto”, 25 ottobre 2000

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