9.10.15

L'oro della California. Un sogno americano (Attilio Brilli)

Cercatori d'oro
Sto leggendo con gusto un curioso scritto che Sellerio pubblicò in una collana di libretti verdolini, “Il divano”, più di vent'anni fa. E' una Guida del cercatore d'oro della California pubblicata a New York nel 1848 e firmata da un non meglio conosciuto mister Simpson. Pare che il libretto, con altri dello stesso genere, abbia contribuito con successo alla fabbricazione di un mito, quello – appunto – dell'oro di California e al diffondersi della febbre che ne conseguì. Le pagine che si leggono con gusto e curiosità, seppure con più di un dubbio sulla veridicità, non sono poche e a libro finito qualcuna ne “posterò” per proporla e rammentarmene. Qui trova invece posto l'introduzione di Brilli, che ho trovato assai efficace come rievocazione di un tempo e di un mito. (S.L.L.)

Per la risonanza che ebbe in tutto il mondo, il discorso che il Presidente degli Stati Uniti tenne al Congresso il 5 dicembre 1848 può essere considerato l’avvio ufficiale della corsa all’oro della California: «Le relazioni parlano di una tale abbondanza del metallo in quella regione, da sembrare al di là del credibile se non fossero suffragate da testimonianze dirette!». Sul tavolo presidenziale c’erano infatti due autorevoli relazioni che giuocheranno un ruolo primario nella storia della California, quella del colonnello R. B. Mason, governatore militare della regione, e quella di Thomas Larkin, console americano a Monterey, entrambe concordi nell’attestare la straordinaria quantità di ritrovamenti auriferi verificatisi nei torrenti e nelle gole della Sierra Nevada.
Tutto era nato nei primi giorni di quel fatidico 1848 nei possedimenti di un intraprendente allevatore di bestiame svizzero, il capitano Sutter, allorché, durante i lavori di ampliamento del canale di una segheria ad acqua, si raccolsero leprime pagliuzze del metallo prezioso. Ecco come viene registrato l’evento nel diario di un operaio che era presente: «Addì 24 gennaio, abbiamo trovato nel bottaccio una specie di metallo che assomiglia all’oro, ed il primo a scoprirlo è stato James Marshall, il costruttore della segheria». Vano ogni tentativo di mantenere il segreto. In capo a poche settimane i torrenti che si gettano nel fiume Sacramento, a cominciare dal Sutter Creek, vengono presi d’assalto e passati al vaglio da una prima ondata di improvvisati cercatori. Non è che l’inizio di un fenomeno travolgente che ha ancor oggi dell’incredibile. Basti pensare che dalle poche migliaia di bianchi presenti nel 1848 nelle valli del Sacramento e del San Joaquin, e nelle zone pedemontane, si passa a oltre centomila cercatori alla fine del 1849 e al doppio nel corso del 1850, allorché si giunge in California da ogni parte del mondo, Australia compresa.
Per gli Europei, gli Asiatici e gli stessi Americani, la California è poco più di un nome sulle carte geografiche. A dire il vero, essa era assurta a qualche notorietà proprio agli inizi di quello stesso anno, il 1848, per essere stata ceduta dal Messico agli Stati Uniti dopo due anni di guerra.
Vaghe e inaffidabili risultano le relazioni dei rari esploratori come Lansford Hastings, autore di una Guida alla pista dell’Oregon e della California (1845), che parlano di un clima ideale, di una potenziale feracità del suolo, di un paesaggio primevo abitato da pacifici indiani e pochi rancheros. Ancor più generiche le notizie sui possibili percorsi o piste per giungervi. Dopo la cittadina di Independence, nel Missouri, avamposto della civiltà verso il mitico West, le carte geografiche registrano un vuoto tanto sterminato quanto minaccioso sin quasi alla costa del Pacifico, un vuoto vagamente marezzato di cilestrine montagne — le favolose Montagne Rocciose — o caratterizzato dall’indistinto e inesplorato amalgama di deserti e pianure.
Come riferiscono le cronache dell’epoca, si giunge in California soprattutto via mare attraversando l’istmo di Panama, o circumnavigando il continente, per Capo Horn. Sia che venga scelta la via di mare, o quella di terra, le fatiche affrontate da questi Argonauti — così vengon detti — diretti verso la California sono inenarrabili. Le carovane organizzate in tutta fretta, senza riserve di cibo adeguato o di bestiame, senza guide esperte dei territori da attraversare; o i navigli approntati alla bell’e meglio da compagnie improvvisate, prive dell’equipaggiamento necessario a mantenere i viaggiatori per mesi di navigazione, si mutano in trappole mortali, in vere e proprie decimazioni. Lo scorbuto e poi le malattie infettive come il tifo e il colera si diffondono prima fra gli equipaggi e poi fra quanti si accampano lungo i fiumi californiani.
Ciò non toglie che l’entusiasmo per questa «nuova frontiera» che si dischiude ad occidente sia incontenibile. Ecco cosa scrive in proposito il «New York Herald» nel gennaio del 1849: «Il trambusto determinato dalle miniere d’oro della California prosegue con intenso fervore. Ogni genere di voci l’alimentano di giorno in giorno. E ogni voce vien trangugiata con incredibile avidità. Al momento lo spirito migratorio sembra far proseliti soprattutto negli stati agricoli e commerciali del Nord e del Sudovest. Nei porti dell’Atlantico si armano bastimenti e si formano società di navigazione, i mariti s’apprestano a lasciare le mogli, i figli le madri, i giovani gli agi consueti; tutti si gettano come forsennati verso l’El Dorado del Pacifico, la meravigliosa California che sta facendo uscir di senno troppa gente... Non passa giorno che uomini benestanti non mettano in vendita i loro averi per fornirsi dei mezzi necessari a raggiungere la meta dorata. Anche nelle altre città grandi e piccole, più o meno lontane dai porti, si formano compagnie per attraversare l’istmo o doppiare Capo Horn». Un occasionale testimone che si trova appunto a Panama, nel 1851, annota: «Fra gli Americani diretti verso la California ci sono uomini d’ogni ceto: professionisti, mercanti, manovali, marinai, agricoltori, artigiani e un gran numero di quei tipi che hanno dimestichezza con l’Ovest, secchi e allampanati, muniti di schioppi più alti di loro». C’è chi non manca di cogliere l’impressionante metamorfosi fra la partenza e l’arrivo di quanti hanno preferito le piste di terra. Così parla un testimone diretto, quale fu il giudice Ingall: « L'aspetto degli emigranti s’è andato intristendo da quando siamo partiti. All’inizio erano pieni di vita e d’animazione, e il cammino era rallegrato dalla canzone I’m going to California with my tin pan on my knee e dall’altra Oli, California, that’s thè land for me. (Il titolo della prima canzone suona « Me ne vado in California con la padella sul ginocchio » ove lo strumento del cercatore d’oro tin pan sostituisce la parola banjo della canzone originale. Il titolo della seconda è « O California, sei la terra che fa per me ».) Ma ora essi si trascinano a stento, affamati e sfiniti, e se s’ode un canto è Oh, carry me back to old Virginia’s shore (« Oh, riportatemi alle spiagge della vecchia Virginia »). È appena il caso di aggiungere che per questi Argonauti che giungono stremati in California il bello deve ancora cominciare. Li attendono fatiche e sofferenze incredibili nel vaglio dei fiumi e nello scavo di rudimentali miniere. Cenciosi e malnutriti, si trovano esposti alle intemperie e alle epidemie. Risse, ruberie, atti di brigantaggio sono all’ordine del giorno in una terra senza legge. La California dei loro sogni si rivela una terra disabitata, in gran parte selvaggia, priva di qualsiasi struttura capace di far fronte ad improvvise e formidabili ondate migratorie.
Fin dal 1848 la scoperta dell’oro crea quello che oggi definiremmo un indotto di eccezionali proporzioni in una vastissima regione che manca di tutto: viveri, legname, vestiario, attrezzature, trasporti, medicine... L’ultimo, eccentrico anello dell’indotto è costituito dalle guide per quanti si accingono a partire per la California e quindi si mettono alla ricerca dell’oro. La guida del fantomatico Simpson — nome certamente di comodo — pubblicata a New York con sorprendente tempestività dall’editore Joyce and Co., nel 1848, è la prima di una nutrita serie che l’avrebbe seguita. Guida o esca per accendere le illusioni di migliaia di emigranti? Il dubbio è lecito poiché, mentre ci attenderemmo un pragmatico vademecum con informazioni sui luoghi, le distanze, gli itinerari, ci troviamo dinnanzi all’esaltazione di una nuova età dell’oro. La guida è ad un tempo ingranaggio dell’indotto commerciale e propulsore dei sogni dei nuovi emigranti. L’enfasi e la dissimulazione sono i veri ingredienti di queste pagine nelle quali l’autore sembra molto più interessato a imitare i canoni di un genere letterario, che a fornire informazioni di prima mano e di una qualche attendibilità. La stessa divisione del libretto in due parti: il resoconto delle vicende personali nella zona mineraria con il vivace corredo di eventi, incontri, aneddoti, esplorazioni, e la raccolta oggettiva di dati sui metodi di estrazione dell’oro, sulla flora e la fauna, gli usi e i costumi degli abitanti, risponde ai criteri propri della letteratura topografica e di viaggio del XVIII secolo. La guida mantiene infatti un sostanziale equilibrio fra la suggestione narrativa delle avventure e la funzione didattica della documentazione, fra il diario e la storia, il dulce e l'utile oraziani. Più che un avventuroso pioniere, il nostro Mr. Simpson, è un abile manipolatore e cucitore di notizie, resoconti, relazioni — quelle citate di Mason e di Larkin in particolare — e un non sprovveduto cultore di letteratura di viaggio, visto che camuffa il proprio itinerario californiano nella forma epistolare, una forma molto più consona ai raffinati milordi del Grand Tour che ai rudi pionieri del West, e trova il modo di imitare Gulliver e Robinson.
L’abilità dell’autore della guida traspare anche da altri elementi in apparenza contraddittori. Il primo è costituito dall’attendibilità dei metodi di setacciamento, estrazione e depurazione del metallo descritti nel testo, così da catturare l’interesse e la fiducia del lettore. Il secondo è dato dallo stile pragmatico e disadorno con cui si descrivono situazioni favolistiche come l’avvistamento di torrenti dall’alveo d’oro. Il terzo è l’atmosfera benevolente che affratella i cercatori, i quali non rivelano traccia di brama o di egoismo. Una miscela che dà luogo ad uno deimiti centrali del Nuovo Mondo, alla moderna reincarnazione dell’età dell’oro. Soltanto più tardi scrittori come Mark Twain, Bret Harte e Jack London faranno della corsa all’oro una metafora della lotta per la vita.

La Guida del cercatore d’oro della California è forse il primo esempio di come si alimenta un mito su scala mondiale. Come nota il suo autore, dietro le migrazioni dei cercatori, dietro il vanificarsi delle illusioni di gran parte di loro, resta pur sempre una terra dissodata — per usare un’immagine biblica — pronta per nuove generazioni di più laboriosi pionieri e di accorti imprenditori. Resta soprattutto, possiamo aggiungere, l’irrefrenabile impulso verso la «nuova frontiera». La più clamorosa conseguenza della corsa all’oro della California è infatti la penetrazione della cosiddetta civiltà nel continente americano, sino alla costa del Pacifico, e con essa il contributo dato dagli emigranti di mezzo mondo all’assetto definitivo della confederazione americana.

Guida del cercatore d'oro della California, Sellerio, 1993

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