9.10.15

Il comando populista a volte non basta (Massimo Villone)

Quasi un anno fa misi da parte questo articolo del costituzionalista Villone originato da una dichiarazione del capo del governo, che negava di voler essere l'uomo solo al comando. Riletto, mi sembra tuttora attuale. (S.L.L.)
Eva e Juan Peron con i loro cagnolini
Alla fine, chi comanda in Italia? Uno, tutti, o nessuno?
La domanda ci tormenta da quando Renzi ha con veemenza negato che ci sia un uomo solo al comando. Ma può accadere che l'uomo solo al comando ci sia, e tuttavia non comandi alcunché.
Il capitolo Ue si è chiuso senza grandi risultati per l'Italia, e le schermaglie verbali che continuano - l'ultima con Juncker - sono puro teatro. I trionfalismi governativi sono stati rapidamente spenti non da gufi e parrucconi, ma dalle valutazioni Istat e Bankitalia. Le misure messe in campo non daranno risultati importanti per la crescita, e soprattutto non ci saranno miglioramenti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cambiare rotta, ma il timone non risponde.
E allora chi comanda, a chi? A nulla servono gli interventi volti a concentrare sulle stanze di Palazzo Chigi strumenti di controllo apparente, come si fa quando si vuole riportare la dirigenza pubblica — con la riforma della Pubblica amministrazione — sotto l'ombrello della presidenza del consiglio.
Certo può servire a rafforzare il premier e la cerchia a lui più vicina, indebolendo ancora un consiglio dei ministri popolato di esangui coristi. Ma è un potere spicciolo per l'uomo al comando che non comanda.
Inoltre, Renzi non sembra considerare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a rigettare l'accusa di eccessiva personalizzazione. Né basta il consenso di sedi di partito che non hanno più alle spalle un'organizzazione radicata negli iscritti e nel territorio, sono drogate da selezioni populistiche del ceto politico come le primarie aperte, vedono la minoranza interna ridursi alla passiva accettazione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di platee di imprenditori attenti solo - come è persino giusto che sia - al profitto delle proprie aziende e ai vantaggi che possono trarre dalla benevolenza governativa. Né ancora basta richiamare un partito della nazione, con ciò implicitamente spingendo il dissenso nella categoria del tradimento piuttosto che del confronto necessario con opinioni, idee, progetti di cui bisogna tener conto. Né infine basta l'accusa che altri lavorino per spaccare il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiutare, con questa e altre fantasiose motivazioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle mediazioni possibili.
Come si può affermare che miri alla rottura chi vuole uguali - e maggiori - diritti per tutti? O ritenere che lavori invece per l'unità chi legge l'eguaglianza - pilastro della Costituzione — come livellamento verso il basso, minore dignità e qualità di vita, più debole difesa dei propri diritti? È questo lo scenario verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.
Il premier è palesemente infastidito che intorno al suo progetto non crescano entusiastici e unanimi consensi, e che anzi si prepari una stagione di forti contrasti. Ma era scritto. Si possono chiedere a un paese sacrifici anche gravi, che però i tweet o facebook non bastano a far metabolizzare.
Ci vorrebbero partiti radicati, capaci di portare motivazioni e capacità di convincimento dal ponte di comando ai luoghi di lavoro, nelle case, nelle famiglie. Ma quei partiti sono stati smantellati, con il plauso miope di molti. Ci vorrebbero organizzazioni capillari come i sindacati, con i quali ci si vanta invece di rifiutare ogni dialogo. Ci vorrebbero istituzioni capaci di dare voce a tutte le posizioni, anche le più lontane, perché l'azione di governo ne tenga per quanto possibile conto. Invece, si fa l'esatto contrario, cancellando spazi di rappresentanza, tagliando presenze politiche vitali con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, riducendo all'obbedienza i riottosi e dando all'esecutivo il controllo dei lavori parlamentari.
Quel che accade è quanto un certo costituzionalismo della crisi riteneva e ritiene necessario per fronteggiare l'emergenza economica e il riaggiustamento delle ragioni di scambio tra nord e sud del mondo. Non funziona, in specie quando l'inversione di rotta nella crisi non è vicina come si sperava. Come si pensa di spiegare, di convincere, di governare e contenere il malessere sociale? Sono false le gioie di una politica senza corpi intermedi, partiti, sindacati. Non serve dare la scalata a un partito con il leveraged buyout delle primarie aperte. È mera rappresentazione teatrale che basti l'investitura di un turno elettorale per garantire a qualsiasi esecutivo una effettiva e duratura capacità di governo. Né ovviamente suppliscono cariche di polizia e manganelli. Che serve manganellare le speranze perdute?
Renzi non può cavarsela con le invettive o le comparsate televisive. Dovrebbe leggere la Costituzione, a partire dall'art. 2 per cui la Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale. Se poi studiare la Costituzione fosse troppo, potrebbe leggere il discorso di Papa Francesco ai Movimenti popolari del 28 ottobre. Solidarietà - dice il Papa - «è anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi ... intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ... ».
È proprio questo elemento di solidarietà che manca nel messaggio del premier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe politicamente corretto che i Papi avessero tessere di partito. Del resto, a veder bene, se Papa Francesco la chiedesse al Pd probabilmente gliela rifiuterebbero. È un comunista.


il manifesto, 12.11.2014

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