10.10.15

Muscolo antico. Atleti e agonismo nella civiltà greco-romana (Lidia Storoni)

Il discobolo di Mirone - Museo Nazionale Romano - Palazzo Massimo alle Terme
Chi assisterà ai Campionati Atletici Internazionali che si svolgeranno a Roma dal 29 agosto vedrà giovani d'ambo i sessi fornire prestazioni sorprendenti. Attitudine naturale, tenacia, addestramento e rigida applicazione delle tecniche inerenti a ciascun esercizio permettono di ottenere dal proprio corpo risultati che sono preclusi a chi non è professionista. Gli stessi corpi asciutti e vigorosi negli stessi atteggiamenti compiono esercizi analoghi, forse antiche tattiche di guerra trasformate in prove ginniche, completamente nudi, nelle sculture e nelle pitture vascolari che saranno esposte in Campidoglio, nel Palazzo dei Conservatori, nella mostra intitolata Athlas e atleti nell'antica Grecia dal 26 c.m. e in quella che verrà inaugurata il 27 nel Museo della Civiltà Romana, dal titolo Ludi, Munera e Certamina, nomi dei varii tipi di agonismo a Roma.
Tra le gare del mondo antico e quelle attuali esistono però spiccate differenze, non solo per il tipo di sports e il modo di praticarli, ma per lo spirito dei competitori e del pubblico. Dopo le esequie di Patroclo, spento il rogo, raccolte le ceneri, Achille propone ricchi premi a quelli degli Achei che vorranno cimentarsi nei giochi; agli occhi di Omero, nell'VIII secolo, gli agoni avevano carattere esclusivamente funerario, costituivano un omaggio ai defunti come a Roma e in Etruria, del resto, i duelli dei gladiatori (ancora Cesare e Augusto ne offrirono a loro spese in suffragio dei loro cari).
I giochi olimpici iniziarono come omaggio a Pelope, il mitico eroe che dette il nome al Peloponneso; ma l'Odissea, posteriore all'Iliade, riflette un diverso costume: al termine del banchetto, il re dei Feaci invita i presenti a mostrare la loro abilità allo straniero che non ha ancora rivelato il suo nome affinché, una volta tornato in patria, riferisca quanto essi eccellono in giochi d'ogni sorta, dato che, aggiunge l'ospitale Alcinoo, non c'è gloria più alta per l'uomo di quella che si procura con le mani e con i piedi. Questo è forse il primo esempio di una competizione che non ha altro fine che l'intrattenimento; non sappiamo se gli spettatori seduti sulle gradinate dell' affresco di Creta nella tauromachia scorgessero uno spettacolo o un rito e se i due pugili adolescenti di Santorino facessero un gioco, uno sport o una iniziazione (XV secolo a.C.).
Gli atleti greci si esibivano secondo un programma minuziosamente regolato: i cinque esercizi del Pentathlon si succedevano sempre nello stesso ordine: salto in lungo, lancio del disco (che pesava più di 2 kg), del giavellotto, corsa (di 200, 370 e 4.400 m.) e lotta. A questa era ammesso solo chi aveva superato con successo le prove precedenti. Seguivano il pugilato, il pancrazio (lotta e pugilato insieme) e le corse dei cavalli su bighe e quadrighe, che forse ispirarono ai pittori la prima prospettiva.
Per poter partecipare alle Olimpiadi, che erano le gare più importanti, i concorrenti dovevano essere incensurati, figli di genitori greci, compiere un allenamento di trenta giorni sulle piste prescritte, giurare di battersi lealmente e sacrificare un cinghiale a Zeus. Va tenuta presente la componente religiosa delle gare e l'alto valore morale della competizione. Athlas significa gara e premio, ma questo, tranne che nelle Panatenee, non consisteva in denaro, bensì in corone d'oro, orci d'olio e le famose anfore panatenaiche che saranno esposte a Roma, provenienti da tombe di Taranto. I compensi in denaro furono dati ai professionisti che dalle gare traevano di che vivere in epoca più tarda, quando ebbero accesso alle arene atleti di qualsiasi ceto sociale e non, come agli inizi in una società schiavistica, soltanto i signori, i soli che potessero permettersi i lunghi allenamenti, il possesso di attrezzi e di cavalli, la compagnia d'un allenatore e le spese di viaggio e di soggiorno nei luoghi dove si svolgevano i giochi; oltre alle citate Olimpia e Atene, a Corinto, dove si celebravano i frequentatissimi giochi istmici (qui Tito Quinto Flaminino, dopo la vittoria di Cinocefale del 197 a.C., proclamò alla folla che i romani avrebbero concesso la libertà ai greci); a Nemea, dove avvenivano le gare Nemee in memoria di Eracle.
Ma anche se non arricchiva in seguito alla sua vittoria, all'atleta valoroso spettavano grandi onori e privilegi quando rientrava in patria attraverso una breccia aperta nelle mura per il suo ritorno: diventava la gloria della sua famiglia e l'eroe della città. Il premio più ambito e anche costoso era l'epinicio composto in suo onore da un poeta famoso, come Pindaro o Bacchilide; e poi la statua, in legno le più antiche e poi in bronzo. Non si trattava d'un vero e proprio ritratto l'arte greca rifuggiva dalla rappresentazione della realtà e inoltre si riteneva immorale che un essere umano si vedesse riprodotto com'era. Era l' immagine generica e idealizzata via via del fanciullo, sotto i sedici anni, del giovane, dai sedici ai venti, o dell'uomo, a seconda della classe nella quale il campione si era esibito e aveva vinto; di lui veniva consegnato alla venerazione soltanto il nome, inciso nell'iscrizione insieme a quello dell'artista.
Il grandissimo numero di statue di atleti di cui ci è pervenuta notizia, di cui in rari casi possediamo copie romane e, in casi ancor più rari, gli originali, dimostra fino a che punto il soggetto fosse frequente. Le opere più famose, come ad esempio il Discobolo di Mirone, testimoniano l'attento studio dell'anatomia e il culto della bellezza tipico dei greci. Esse appartengono a grandi nomi, come quelli di Policleto e di Lisippo. A quest'ultimo ha dedicato recentemente un saggio eccellente l' archeologo Paolo Moreno (Vita e arte di Lisippo, Il Saggiatore, pagg. 302, lire 40.000). A questo scultore, contemporaneo di Alessandro, furono attribuiti 1.500 bronzi.
Resta l'Agia, l'atleta che s'incorona e quello che si deterge con lo strigile, oggetto immancabile nelle tombe degli atleti (come quelle di Taranto) insieme alla fiaschetta dell'unguento, detta alabastron e spesso le halteres, manubri di ferro che si usavano nel salto in lungo (ciò esclude che il tuffatore di Paestum fosse un atleta poiché questi oggetti mancano e tuffo e nuoto non erano esercizi praticati dagli atleti). Dal V secolo in poi le gare compresero anche prove musicali, poetiche e filosofiche; Esiodo aveva già vinto un tripode in un concorso poetico, però ancora di carattere funerario (V secolo), mentre nel IV entrarono in competizione Platone, Euripide e altri.
All'inizio i concorrenti appartenevano all'élite, poi la cultura fisica si diffuse con i ginnasi, l'ambiente divenne meno esclusivo, ma lo sport professionistico retribuito fu guardato con disprezzo dai nobili e dagli intellettuali. Contribuì a questo atteggiamento non solo lo snobismo conservatore ma anche l' antagonismo fra materia e spirito, subentrato nel pensiero greco e fors'anche il degrado spirituale dei campioni, limitati al solo esercizio fisico: basta vedere i ceffi brutali degli atleti nei mosaici romani. Lentamente, si fece il tifo per il musico, il poeta, il danzatore. Poi l'agonistica si trasferì presso i parvenus romani e furono organizzati giochi e gare di stile greco, specialmente da imperatori filelleni, come Nerone e Adriano: manca solo, scrisse Tacito a proposito delle gare indette da Nerone, che si presentino nudi, non sospettando certo le iniziative elettorali dell'on. Pannella.
Domiziano a sua volta istituì il Certamen Capitolino, che comprendeva gare di retorica, poesia, canto, flauto, corse, pugilato, lotta e carri. La condanna del professionismo ha una componente di snobismo intellettuale e cela anche quel graduale passaggio dalla materia allo spirito, dal lavoro manuale a quello intellettuale, che si riflette nella lingua, dove i vocaboli concreti cedono spazio a quelli astratti e alcuni mutano significato. L'ultima fase di questo processo si rivela nelle immagini, quando i premi degli atleti vittoriosi, rami di palma e corone, saranno trasferiti ai martiri dipinti nelle catacombe, perché hanno superato la prova e hanno sgominato la morte.
La civiltà occidentale deve molto all'agonismo antico, poiché da esso proviene non solo lo sviluppo di conoscenze anatomiche e il progresso dell'arte figurativa, ma anche un alto messaggio morale: per tutta la durata dei giochi di Olimpia in tutta la Grecia erano sospese le ostilità; entrare armati nel recinto sacro era sacrilegio. Partecipare alle gare significava, per uomini provenienti dall'Asia come dalla Magna Grecia, sentirsi appartenenti alla stessa cultura, rispettosa di valori comuni. Nella competizione, fisica o intellettuale, si riflette il tipico atteggiamento greco che postula dialogo, confronto tra pari e al tempo stesso regolarità, ordine, misura: le basi fondamentali della democrazia.


“la Repubblica”, 22 agosto 1987

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