27.10.15

Simmaco e Sant'Ambrogio. Alle origini dell'intolleranza (Lidia Storoni)

Se c'è una città italiana moderna, europea, è Milano. Sembra immune dal peso di quel passato che vincola l'edilizia e ingombra il traffico con le sue presenze monumentali. Non vi si riconosce neanche, come a Torino e a Bologna, il cardo e il decumanus, le due vie ortogonali Nord-Sud, Est-Ovest che i romani tracciavano quando stabilivano un accampamento o ripartivano i lotti coltivabili con il sistema detto centuriatio.
Tutto si cerca a Milano fuorché l'archeologia: si visita Sant'Ambrogio fuori mano di perfetto stile romanico e il Duomo d'imperfetto gotico; si ammira il Bramante delle Grazie e, nonostante i restauri, l'Ultima Cena di Leonardo; si rievocano gli Sforza e i Visconti; nei palazzi signorili del 700 e dell'800 dalle belle cancellate sembra d'intravedere il profilo dei Verri e del Manzoni; alla Scala si guarda con venerazione il podio dove diressero Verdi e Toscanini. Ma a Milano chi cerca i Celti, i Galli, i Romani, chi vi riconosce la capitale d'occidente che si contrappose a Roma?
Ci ha pensato un archeologo che insegna a Trieste ed è stato per molti anni Soprintendente alle Antichità della Lombardia, Mario Mirabella Roberti. In un volume illustrato edito da Rusconi (Milano romana) segnala, capitolo per capitolo, i ritrovamenti fortuiti avvenuti sotto gli edifici moderni, descrive in modo rigoroso e limpido tutto ciò che è rimasto o è stato ricostruito dopo gli incendi di Attila e di Federico Barbarossa e ciò che la città rinascimentale e moderna ha sepolto nei secoli: mura, torri, terme, teatro, circo, palazzo imperiale, chiese paleocristiane, affreschi, sculture, sarcofagi, mosaici; e ripercorre l' evoluzione urbanistica della città e la sua storia.
All'infuori delle colonne e dei mosaici absidali di San Lorenzo Maggiore, le vestigia visibili non sono molte. Tra le sculture, c'è al Castello Sforzesco una bellissima testa detta di Teodora; ma Raissa Calza e Bianchi Bandinelli ritenevano che potesse essere Galla Placidia. Ma se poniamo queste poche pietre nel loro momento storico, vediamo svolgersi una vicenda culturale e politica di rilievo nella storia d'Italia.
A Milano repubblicana, già importante per la produzione agricola e laniera, fece gli studi Virgilio diciassettenne; vi si fermò Ottaviano, di ritorno dalla vittoria su Antonio e Cleopatra; nel Capitolium, dove fu ricevuto con il dovuto ossequio, notò - riferisce Plutarco - la statua di Bruto ma non fece commenti (ci vuol altro per far batter ciglio a certi politici). Nel III secolo Gallieno respinse i barbari dalle mura della città e Diocleziano, che aveva stabilito la capitale d'oriente a Nicomedia, vi incontrò Massimiano, il collega d'Occidente, che aveva scelto Milano. Dichiarandosi discendenti diretti da Giove il primo, da Ercole il secondo, nel 291 si presentarono con le formalità rigide e l'aspetto ieratico che si convenivano a sovrani divinizzati: "Che momenti, dèi buoni!", scrive estasiato il panegirista; "che spettacolo fu vedervi apparire l'uno a fianco dell'altro per coloro che erano ammessi a adorare i vostri sacri volti! e quando, saliti su uno stesso cocchio, attraversaste la città, con quali grida di esultanza uomini, donne, vecchi e bambini si precipitarono nelle strade, si sporsero dalle finestre per acclamarvi! Roma stessa, rapita dal gaudio della vostra vicinanza, cercava di scorgervi dall'alto dei suoi colli...".
Ma la vista da vicino degli imperatori a Roma era sempre più rara: a Milano Costantino firmò il famoso editto che concedeva libertà di culto ai cristiani e dette l'avvio alla costruzione delle prime chiese. Operò, soprattutto, a Milano la più alta autorità della Chiesa alla fine del IV secolo, Ambrogio, eletto vescovo per acclamazione nel 374: egli persuase il giovane imperatore Graziano a revocare un editto di tolleranza di cui non resta traccia nel codice e ad emanarne uno di totale distacco della corona dai culti pagani; pochi anni dopo, fu Teodosio ad essere spiritualmente soggiogato dal vescovo, tanto da promulgare il famoso Editto di Tessalonica, nel quale chi non era cattolico ortodosso conforme al dogma di Nicea veniva posto non solo fuori della legalità, ma addirittura definito pazzo.
Ancora: a Milano Ambrogio battezzò un giovane studioso di filosofia che, nel suo anelito a una purezza spoglia ed essenziale, dopo un tormentato percorso attraverso varie dottrine, era approdato al cristianesimo, l'africano Agostino. E qui, in una delle chiese rintracciabili soltanto da scarsi ruderi sottoterra, il pugnace vescovo combatté le sue battaglie più aspre, tenne testa all'imperatrice madre Giustina, cristiana ma di confessione ariana, la quale voleva uno degli edifici sacri esistenti in città per i seguaci della sua setta. Per impedire che gli fosse requisita la chiesa con la forza, Ambrogio la occupò con i fedeli tutta la notte; e per vincere in loro il sonno e la paura, li fece cantare quegli inni sacri che segnano la prima partecipazione del popolo al culto e introducono la rima in latino. Emaciato, inflessibile in quel pallio senatoriale di lana bianca che gli vediamo indosso nel ritratto a mosaico di San Vittore (non esisteva ancora l'abito del religioso), rimase tutta la notte ritto davanti all'altare: come nelle chiese post-conciliari, quell'altare guardava i fedeli.
Quando, con fragore d'armi, grida e svenimenti delle donne, entrarono i soldati Goti della guardia imperiale a prender possesso dell'aula sacra, li fermò lo sguardo magnetico e l'energia sovrumana di Ambrogio. Non osarono agire e piegarono le ginocchia per unirsi alle preghiere: "sono venuti i popoli stranieri", scrisse Ambrogio alla sorella, con una frase che sembra presagire le grandi invasioni imminenti, "ma hanno ricevuto il retaggio di Cristo. Sono fratelli coloro che prima erano nemici...".
Davanti a una delle chiese milanesi il vescovo impose penitenza, rifiutandogli l'eucarestia per tre giorni, all'imperatore Teodosio per il massacro di Tessalonica, compiuto per suo ordine (una rappresaglia "esemplare" per l' uccisione d'un alto ufficiale barbaro); qui, al cospetto delle massime autorità, del Capo di Stato Maggiore Stilicone e dei figliuoletti Onorio e Placidia, Ambrogio pronunciò la splendida orazione funebre del sovrano cattolico, protettore della Chiesa, prima che la salma fosse trasportata a Costantinopoli.
Qui, certamente nella sala del trono del palatium scomparso, al cospetto del giovanissimo Valentiniano II, Simmaco, prefetto di Roma, pronunciò il canto del cigno del paganesimo romano. S'era recato a Milano per implorare il sovrano adolescente di non togliere dall'aula del Senato di Roma la statua della Vittoria che vi aveva collocato Augusto. Davanti ad essa, entrando, bruciavano un granello d'incenso i Padri Coscritti: era il simbolo della potenza romana e mai come in quel secolo funestato dalle invasioni era necessario propiziarsela. Il discorso di Simmaco è nobilissimo; invoca soltanto tolleranza religiosa, com'era nel costume di Roma. L'Urbe, ormai canuta e veneranda, si presenta a vantare le sue memorie: ormai, dice, è tardi, non se la sente di cambiare i suoi dèi. E del resto, la molteplicità dei culti non è che adorazione in varii modi d' una divinità che è unica, e consente di procedere sul cammino della salvezza per più vie: "Contempliamo tutti gli stessi astri", disse l'oratore, "il cielo è per tutti lo stesso, uno stesso universo ne circonda. Che cosa importa attraverso quale dottrina ciascuno cerca la sua verità? non si può accedere a un mistero tanto alto per una sola via...".
Ma Ambrogio, in quel dibattito estremo, rispose con la famosa epistola, quasi un'apologia postuma, che rimase senza replica. Pose, con grande splendore stilistico, la pietra miliare dell'intolleranza della Chiesa, affermando: "Cristo ha detto: "Io sono la Via"".


“la Repubblica”, 4 novembre 1984

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