14.10.15

Sofocle ed Eschilo. La città tra paura e conoscenza (Diego Lanza)

Il numero 184/185 di “Aut aut” fu dedicato alle Nuove antichità, cioè all’evoluzione degli studi sull’antichità che un tempo si chiamava classica, e curato da Mario Vegetti. Comprendeva studi di Vernant, di Diego Lanza, Casagrande e Vecchio, Detienne, Burkert, Le Goff e altri. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò in anteprima alcuni assaggi (dalla presentazione di Vegetti, dal saggio di Lanza, La paura di Edipo, e da quello di Detienne, Pratiche culinarie e spirito del sacrificio). Riprendo qui il brano di Lanza che mette a confronto l'Edipo re di Sofocle con le Eumenidi, la tragedia di Eschilo che conclude la trilogia Orestea. (S.L.L.)
Eumenidi - Il coro delle Erinni  in una messa in scena al Teatro greco di Siracusa

Come hanno mostrato Stanford e Vernant, il tessuto linguistico dell’Edipo re è solo apparentemente compatto: esso cela quasi in ogni battuta minacciose iridescenze; le parole significano diversamente per chi le pronuncia e per chi le ascolta. La scena sofoclea, libera da ogni interferenza dell’orchestra, sulla quale il dialogo sembra fluire continuo in un ordinato scambio di discorsi, dove si parla e si ascolta, è anche il luogo dove, anziché intendersi, gli interlocutori si fraintendono.
Edipo teme il responso ricevuto. Tuttavia non ha paura, come il coro, del dio che vaticina; all’oracolo egli si rivolge più di una volta nella propria vita. Mostra di sapere che la volontà divina non si può forzare: «Costringere gli dei se non vogliono, nessun uomo lo può» (280-1).
Il fluire degli avvenimenti d’altra parte non è legato alla rivelazione: «Queste cose si compiranno», dice Tiresia, «anche se io le avessi a coprire col silenzio» (341). Edipo lo sa, ma nella sua puntigliosa devozione all’oracolo si cela uno slancio competitivo.
Va ad interrogare l’oracolo per sapere di chi sia figlio, ma la risposta è altra, e altrimenti minacciosa. Edipo allora tenta di disambiguare il vaticinio in un precetto: cancella ogni dubbio e si mantiene lontano da Corinto. Quando poi tutto è compiuto, quando si è nel futuro già realizzato, a Edipo si ripresenta la situazione di Delfi: Tiresia ha parlato, ma le sue parole non sono state comprese. «Io sono folle», replica al re l’indovino, «secondo quel che tu credi, ma in senno fui per i genitori che ti generarono». «Chi», esclama allora Edipo, «aspetta, chi dei mortali mi ha generato?» (435-7). Nel mezzo dell’inchiesta Edipo ritorna al quesito originario. Ma ancora una volta la domanda, l’unica che veramente conti, resta senza risposta. Il profeta, come il suo dio, non può essere obbligato a rivelare quel che non vuole, e contro il suo ambiguo significare nulla può ora la volontà disambiguante di Edipo. Ma se pure Edipo cerca di competere con l’oracolo, scambiando un vaticinio per un precetto e tentando disperatamente di uniformatisi, una cosa egli non fa. Ed è su questo non fare che si costruisce la tragedia, il suo tempo drammatico, la sua tensione emotiva. Edipo, maestro di intelligenza umana, orgoglioso del proprio sapere profano che ha sconfitto la sfinge, non usa mai il vaticino divino come oggetto della propria conoscenza, non lo assume a indizio della propria indagine. Se l’oracolo fosse portatore di conoscenza, Edipo sarebbe in grado di capire meglio la propria condizione, sarebbe soprattutto capace di collegare un vaticinio all’altro, di confrontare il suo con quello di Laio, di confrontarli entrambi con le parole profetiche di Tiresia. Edipo non fa nulla di questo: le parole del dio e del suo profeta non vengono contestualizzate all’inchiesta; è questa la serie di gravi smagliature nel tessuto della verisimiglianza rimproverata a Sofocle da Voltaire. Ma di fronte all’oracolo Edipo non si pone conoscitivamente: la sua unica preoccupazione è quella di accettarlo come minaccioso precetto per vanificarlo. Le sue azioni non sono indirizzate a capire, ma a sfuggire alla paura suscitata dall’annuncio del dio, che, nonostante tutto, non lo abbandona: «Questo, proprio questo è il mio perpetuo terrore».
Di tale paura vive il personaggio Edipo, e anche il suo farsi tiranno è effetto della paura. Egli si muove sul sottile crinale tra paura e conoscenza: rassicurante riconoscibilità di una realtà che è possibile indagare e descrivere e attesa del compiersi di un futuro che si tenta vanamente di frustrare. Sotto la compattezza della sua presenza scenica, la linearità del suo lessico, la sapiente gradualità delle sue trasformazioni, il personaggio Edipo rivela questa profonda disomogeneità, questa inconciliabile disparità di livelli. La pluralità drammatica della tragedia si concentra senza distraenti spettacolarità nell’ordinato susseguirsi delle battute del protagonista. Edipo appare insieme prossimo e temibile, suscita ad un tempo la comunanza della pietà e lo straniamento della paura.
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Consideriamo ora lo scenario in cui abnorme e quotidiano si incontrano, in cui il terrificante sì produce e in cui si produce la rassicurazione riparatrice. La paura personificatasi nelle Erinni ostenta il mostruoso. La confusione che esse portano facendo irrompere il regno della morte tra i viventi, confondendo i due domini, è massima nelle prime scene delle Eumenidi e va poi progressivamente decrescendo. Che cosa però rassicura il pubblico ateniese che la contiguità dell’oltretomba ha sempre inquietato? I mugolii dei mostri, le loro imprecazioni, le minacciose maledizioni s’infrangono contro una pratica verbale del tutto diversa che viene dalla scena: Oreste, Apollo, Atena appartengono tutti al dominio del logos e alla sua persuasività. Vi è poi il giudizio del tribunale areopagitico, che proscioglie Oreste e manifesta l’impotenza delle sue persecutrici. Teatralmente questa doveva essere scena di alta suggestione. Il coro muto degli areopagiti mima dinnanzi al pubblico di Atene una pratica ben nota: c’è l’insediamento del tribunale, il suo silenzioso assistere allo scontro delle parti, la votazione, lo scrutinio dei voti, infine la proclamazione del verdetto. Si tratta di gesti abituali cui ogni cittadino ateniese ha più volte assistito, che molti hanno avuto personalmente occasione di eseguire. Essi appartengono alla consolante abitualità del vivere giornaliero. Non solo dunque nelle battute di Atena Zeus Agoraios e Peitho hanno vinto, ma più efficacemente nella persuasiva visualità dello spettacolo, che si sovrappone e finisce col cancellare la visualità terrifica dei mostri infernali. É la città, la polis, nel suo quotidiano funzionamento, nella sua immediata riconoscibilità di gesti consueti, si può dire rituali, è questo il grande strumento rassicurante usato dal tragododidaskalos Eschilo. La sua efficacia è certa. La disomogeneità compositiva della trilogia, la complicata complementarità tra scena e orchestra, tra discorsi e canti, tra pacatezza dell’argomentazione e ossessività della parola magica, tende ora a ricomporsi nel grande quadro rassicurante della polis. E di lì a poco si ricompone anche teatralmente nel gran corale di ringraziamento delle convertite Eumenidi e nella solenne ritualità della processione finale.


“il manifesto”, 24 settembre 1981

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