2.10.15

Un uomo come noi. In morte di Marcello Mastroianni (Umberto Eco)

Mastroianni in "Sostiene Pereira"
Una sera l'ambasciatore americano Maxwell Rabb, per festeggiare la visita romana di Nancy Reagan, aveva deciso di invitare a cena non politici e diplomatici ma personaggi della finanza, della moda, dello spettacolo, i principi del giornalismo, gli scrittori, gli artisti. Aveva fatto le cose per bene, come si girava l'occhio si vedevano solo volti celebri e, tanto per citare solo la gente del cinema, per far compagnia alla Loren, per l'occasione, Gregory Peck. Insomma, si aveva proprio l'impressione che lì si fosse dato convegno tutto il mondo. Mentre si prendevano gli aperitivi, Marcello Mastroianni stava in un angolo con me, quasi per appartarsi con un amico che non gli incutesse soggezione, e mi raccontava come al solito barzellette.
Ne era un grande e prolifico raccontatore, poteva tirare sino a tardi, e talora l'ho visto, quando aveva terminato il repertorio, telefonare al suo fornitore massimo, un fratello che abita in Argentina, incurante dell'ora che facesse in quell'emisfero. Lo tirava giù dal letto, si faceva dire l'ultima, e tornava dagli amici con una nuova storia. Poi (quella sera) è venuta l'ora di recarsi a tavola e, mentre si andava verso la sala da pranzo, Marcello mi ha preso sottobraccio, ha mosso la testa come per indicarmi quell'accolta di persone importanti, e mi ha detto: "Se mi vedesse la mia mamma...".
Si noti che l' episodio si svolgeva una decina d' anni fa, quando ormai Marcello era già celeberrimo, tutte quelle persone le conosceva benissimo, e per la maggior parte erano loro che si sentivano onorate di essere con lui. Per cui si potrebbe dire che stava scherzando, stava recitando la parte del ragazzo di provincia. E forse era anche così, perché l'autoironia era la non ultima delle sue virtù. Ma per fare una parte (i bravi attori lo sanno) bisogna entrare in parte, sentirsi in parte, essere in qualche modo disposti alla parte. Voglio dire che (e quella sera l' ho capito benissimo) Marcello era anche sincero, stava semplicemente dicendo che era ancora un ragazzo venuto dal niente, che non si era adattato alla fama. E (sia che lo facesse sia che lo fosse) si comportava da "mammone", tenero e indifeso, che avrebbe voluto raccontare alla madre non tanto quanto fosse bravo, ma quanto la gente ormai pensava che lo fosse.
A poche ore dalla notizia della sua scomparsa già ho sentito citarlo come il più tipico attore italiano. Francamente, queste etichette valgono sempre quel che valgono. Tanto per cominciare, credo si debba ricordarlo come uno dei più grandi attori del secolo, e questo basterebbe. Certamente ha rappresentato il cinema italiano nel mondo forse più e meglio di ogni altro, e ha quasi sempre interpretato personaggi tipicamente italiani (si pensi alla Dolce vita). Ma ha saputo diventare per esempio un memorabile Pereira portoghese, cosa che forse altri attori più tipicamente italiani non avrebbero saputo fare. Forse lo sentivamo (per orgoglio) dei "nostri", ma proprio perché ci liberava dalla persuasione che un italiano dovesse necessariamente essere una maschera della commedia dell'arte. Molti attori (anche non italiani) diventano una "maschera" e finiscono per credere di essere quello che avevano finto di essere (si pensi a John Wayne). Invece Mastroianni era sempre lui, un uomo come noi, e così lo amavamo, per quella sua tenerezza malinconica, per quella sua umanità ironica, per quella sua impalpabile insicurezza, tanto che - direi - in ogni suo film egli entrava in scena dando l'impressione di non sapere chi e che cosa fosse, e cercava di capirsi a poco a poco, mentre diventava il suo personaggio, o il suo personaggio diventava lui - ma anche alla fine ci lasciava con uno sguardo ancora interrogativo.
Recitava quella sera all'ambasciata americana, mentre parlava a un solo spettatore? O si chiedeva davvero che cosa gli fosse successo nella vita e perché mai fosse finito lì? E forse ha fatto qualcosa di diverso nei suoi film? Mai un attore ci ha forse tanto consolato della perplessità di essere al mondo.


“la Repubblica”, 20 dicembre 1996  

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